Gino Paoli: «Qui ormai la musica non conta più»

Il cantante: "All'inizio era il Festival della canzone, non del cantante. Adesso vince solo l'immagine"

Gino Paoli: «Qui ormai la musica non conta più»

Sanremo - Sdraiato sul divano, Gino Paoli è rock. Ha settantacinque anni, canta da cinquanta e sta per entrare sul palco dell'Ariston con Malika Ayane, una che ha un millesimo della sua storia. Malika in arabo significa regina. Paoli ieri è stato il suo accompagnatore in scena. «Sono il suo chaperon», dice ridendo. Nelle sue parole c'è una forza incredibile, persino le contraddizioni diventano forza e non c'entra che lui abbia cantato la colonna sonora dell'Italia nell'ultimo mezzo secolo. C'entra che è rock.

«Io e Luigi Tenco andammo a vedere Il seme della violenza al cinema, sai quel film con Glenn Ford. Inizia con una schermata nera e poi si sente una canzone di Bill Haley: ecco, ci siamo detti, questo è il nostro linguaggio». Ce lo ha ancora, cinquantaquattro anni dopo, mentre si prepara a fare lo chaperon e, ride, «sto per mettermi un paio di scarpe di razza, e non dico razza riferendomi alla qualità: sono proprio fatte con pelle di razza, il pesce». Per la cronaca, sono nere con un intarsio bianco, molto rock tra l'altro.

Gino Paoli, ha visto le altre puntate del Festival di Bonolis?
«No».

Sanremo è risorto.
«Ma ora è il Festival della tv. All'inizio era il Festival della canzone, non del cantante, ora vince solo l'immagine».

Lei però ci viene.
«Ci vengo con lo stesso spirito di quando faccio una serata: suono per il piacere di suonare. Una volta al Festival ci venivano i discografici che poi partivano con la valigetta per andare a vendere le canzoni in giro per il mondo. Adesso è solo una roulette: uno soltanto, se va bene, ci guadagna, gli altri ci perdono tutto o quasi».

Non sembra: da settimane si polemizza sui compensi di Bonolis.
«Mi sembra più scandaloso che ci sia gente che paga 500 euro per entrare ogni sera all'Ariston. No, dico: 500 euro a sera per cinque sere fa 2500 euro. Cinque milioni di lire».

Qualcuno ha giudicato la sua canzone «Il pettirosso» dal nuovo cd «Storie» quasi come fosse l'apologia di una violenza carnale di un settantenne ai danni di una minorenne.
«Avevo molta stima di Luca Barbareschi, pensavo fosse uno capace di stare fuori dal branco. Invece no. Comunque è dai tempi di Rembrandt che un'opera non si giudica più dal punto di vista etico ma solo estetico. Conta l'emozione che l'artista riesce a suscitare, mica solo la bellezza in sé. Sono passati secoli da allora».

Anche Alessandra Mussolini è andata giù duro.
«Mi dispiace, suo padre Romano era un vero amico».

Adesso non dica che ha preso dal nonno.
«Lo sa che una volta Bertolucci mi disse che Marlon Brando aveva studiato la postura e la gestualità di Mussolini».

La Mussolini l'ha convocata di fronte alla commissione bicamerale per l'infanzia a causa del brano «Il pettirosso».
«Il mio avvocato ha già mandato una lettera per chiedere formalmente quale sia il motivo della convocazione. Non abbiamo ancora ricevuto risposta».

Anche il Pd non dà risposta in questo momento.
«Non do giudizi, dico che hanno fatto fare a Veltroni la fine di Prodi. Chi ammazzeranno adesso? È anche vero che non capisco più chi è di destra e chi di sinistra».

Detto da Gino Paoli.
«Quando D'Alema e Occhetto mi chiamarono per dare una mano al Pci, mi dissero: vai in Vigilanza Rai e poi alla Cultura.

Finii alla commissione Trasporti: non ne sapevo nulla».

Invece lei con Malika Ayane è stato meritocratico. Dice: io ci metto la faccia, mandiamo avanti i giovani.
«Ognuno nel suo piccolo fa quel che può. Ma in Italia va più di moda chiedere favori».

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