Il Giornale a Nairobi tra baracche e speranza

A sei mesi di distanza di nuovo in Kenya per dare voce alle storie dei bambini che avete adottato a distanza tramite Alice for Children. I pensieri di viaggio - La testimonianza

Il Giornale a Nairobi 
tra baracche e speranza

nostro inviato a Nairobi

Un inferno costruito e popolato da uomini. Non c’è spazio per i demoni nelle baracche di Nairobi, tutto è umano. A distanza di sei mesi il Giornale è tornato nella capitale keniota, per raccontare la vita quotidiana nelle periferie del terzo mondo. Gli slum, gli immensi quartieri di lamiera dove si ammassano migliaia di disgraziati, sono un bmondo, l’altro lato, quello scuro, quello sbagliato. Ci fa da “Caronte” un abitante del posto, attorno a noi, in borghese, una piccola scorta armata. “Non è possibile venire qui senza essere derubati. Appena entra un estraneo si sparge la voce e arriva subito qualcuno per aggredirlo”. Ci riconoscono per il colore della pelle? “Non solo, rapinano anche i keniani. Qui desta sospetto chi è ben vestito e pulito”. Funziona così, in questo mondo al rovescio. Sguardi affilati dalla fame e dalla sofferenza, occhi vitrei come quelli dei sarcofagi, liquefatti da alcol e droghe ricavate da colle e benzine. Dietro le baracche, oltre il fango e le montagne di escrementi, i palazzoni di Nairobi. Edifici alti polverosi che raccontano di speranze disilluse, cicli economici interrotti prima di incontrare il Continente nero, bolle esplose troppo presto. Una cittadella di benessere assediata dalla disperazione. Kibera, Kariobangi, Korogocho, Dandara sono alcuni dei bubboni che scoppiano qua e là, ai margini della civiltà. Dove il cemento si dimentica di arrivare, germogliano le baracche di lamiera. Da una parte i grattacieli anni settanta che crescono strampalati verso il cielo, ingrigiti dallo smog e dall’incuria. Dall’altra le baracche variopinte, come in un carnevale della disperazione. “Chi abita nelle baracche molto spesso è nato in campagna, fuori dalla città”. Ed è proprio questo l’assurdo: lasciare il bello per sprofondare nel mostruoso.

Il Kenya è un libro infinito di scienze naturali, il paradiso di qualsiasi amante della natura e dei paesaggi. Dalle acque trasparenti dell’Oceano indiano (Malindi, per intenderci), al lago Vittoria, dalle colline dove Karen Blixen ambientò la mia Africa ai 5mila e rotti metri del Kilimangiaro. E poi leoni, antilopi, giraffe, rinoceronti, zebre, fenicotteri, scimmie, uccelli giganteschi e variopinti che imperversano ovunque: dagli sterminati parchi nazionali ai più miseri giardini. Se tutto questo ben di Dio non fosse qui dalla notte dei tempi, verrebbe da pensare che dietro ci sia la regia di un qualche Apt. C’è tutto. Tranne il benessere. I keniani lasciano il “nostro” paradiso, per cercare il loro alle porte di Nairobi. “Abitano nelle baracche perché coltivano la speranza di poter entrare in città, di avere un lavoro e una vita normale – ci racconta una volontaria di Alice for Children -. Stare in campagna, per loro, significa essere morti, dipendere da un raccolto o dal bestiame”. In balia della sorte, appesi a un annata fortunata o a un maiale ammalato. Sembra storia, ma è cronaca. Negli slum, tra immondizia ed escrementi, i bambini vanno in giro scalzi con i corpi deformati da ulcere malcurate. Quando cala il sole sulle baracche scende una cappa di piombo. “Non c’è luce elettrica, ci sono dei lampioni ma non funzionano più: o sono guasti o sono stati spaccati. Ai criminali piacciono le tenebre”, ci racconta laconico un abitante del posto. Scende l’oblio sulle periferie: violenze sessuali, droga, alcol e pedofilia. Quando cala il sole e smettono di brillare i palazzoni che come un traguardo spiccano dietro le lamiere, si spegne anche l’interruttore della civiltà.

La mattina si riavvolge il nastro: si inforca la giacca stirata col ferro da stiro a carbone, si guada la melma degli scoli e si va ad elemosinare la fortuna. Lo slum è un peccato originale, da grattare via come il fango. Le scarpe sono la carta d’identità del baraccato: la crosta calcificata di melma è la prova del mancato inurbamento. “La mattina escono donne in tailleur e uomini in doppiopetto e poi la sera li vedi tornare. E se ritornano vuol dire che non è andata bene. Ma questo paese se lo stanno comprando i cinesi, per noi non c’è spazio. Costruiscono ovunque, tirano su palazzi e autostrade. Si stanno prendendo la nostra terra”, ci racconta un autista. Lasciamo in una nuvola di polvere Korogocho e ci infiliamo nel traffico africano: code, ingorghi, clacson e smog. Nel centro di Nairobi stanno costruendo una enorme sopraelevata, una strada sopra la città che dovrebbe sbloccare il congestionamento e diminuire le polveri delle code.

Le ruspe lavorano incessantemente, decine di lavoratori indigeni trasportano, scavano, svuotano, riempiono, martellano e bucano. In cima a una montagnetta un uomo impartisce ordini, sotto il caschetto giallo ha gli occhi a mandorla. Forse neanche questa volta la ruota si è fermata nel punto giusto. 

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