Se c'è uno scrittore che per tutta la propria vita ha fatto i conti con la Rivoluzione d'Ottobre, che ne ha raccontato cause ed effetti, che ha lottato con le istituzioni che proprio quella Rivoluzione ha partorito, questo scrittore è Aleksandr Isaevic Solženicyn (1918-2008). D'altro canto non è facile per il lettore italiano, che ha a disposizione soltanto una parte della sua opera, comprendere la centralità del 1917 per lo scrittore russo.
Fra tutte le sue opere, per quanto possa apparire sorprendente, Solženicyn attribuiva la massima importanza alla grande epopea intitolata La ruota rossa, praticamente sconosciuta in Italia. Dieci volumi, oltre 7mila pagine, La ruota rossa è la storia della Rivoluzione d'Ottobre, ricostruita minuziosamente dallo scrittore fin dalle sue premesse, dalla personalità dei suoi protagonisti, Lenin in primo luogo. Di questa epopea, che Solženicyn a un certo punto rinunciò a completare, sono stati tradotti in italiano soltanto due volumi (lo scrittore preferiva chiamarli «nodi»), Lenin a Zurigo e Agosto 1914, da anni peraltro non più disponibili in libreria. Come ha testimoniato il figlio Stepan annunciando quest'anno la pubblicazione inglese di un altro dei «nodi» dell'opera, Marzo 1917, «la guerra, il carcere, il lager, la sopravvivenza al tumore, la lotta per raccontare la storia del Gulag hanno interrotto e posticipato ma non impedito a Solženicyn di realizzare la missione di tutta la sua vita: pubblicare La ruota rossa».
In italiano è stata invece finalmente pubblicata da Einaudi la traduzione dall'originale dell'opera che, nel 1962, fece conoscere Solenicyn prima al grande pubblico russo e poi a tutto il mondo, Una giornata di Ivan Denisovic. Il racconto, che inaugurò la cosiddetta letteratura concentrazionaria e che descrive «una giornata quasi felice (delle) tremilaseicentocinquantasei» di uno zek, il condannato al Gulag sovietico, era infatti nota in Italia soltanto grazie a traduzioni della versione censurata apparsa sulla rivista Novyj mir. Proprio quest'anno Einaudi ha sostituito la vecchia, oleografica traduzione di Raffaello Uboldi con una nuova resa di Ornella Discacciati, assai più aderente alla prosa dei campi di lavoro e al ricchissimo russo di Solenicyn.
Ciò che seguì alla pubblicazione dell'Ivan Denisovic è storia nota. Pubblicato per un macroscopico equivoco di Chrucëv che vi intravide un esempio seppur paradossale di esaltazione del lavoro socialista, il racconto ebbe una conseguenza del tutto inaspettata: centinaia di altri zek fecero pervenire allo scrittore le loro memorie del Gulag e Solženicyn si ritrovò fra le mani un materiale unico, una vera e propria controstoria dell'Unione Sovietica vista dalla parte dei campi di lavoro forzato, delle isole dell'Arcipelago Gulag. E questa Storia delle nostre fognature (titolo del secondo capitolo dell'Arcipelago Gulag disponibile nei Meridiani Mondadori) ha inizio, non a caso, proprio nel 1917, con le disposizioni leniniane volte a «stabilire un ordine rigidamente rivoluzionario», a «purgare la terra russa da ogni sorta di insetti nocivi»... Tra quegli «insetti nocivi», anni dopo, si ritrovò anche il capitano d'artiglieria pluridecorato Aleksandr Solženicyn, reo di aver criticato Stalin in una lettera privata. E in carcere, in una delle prime isole dell'Arcipelago di cui fece conoscenza, lo scrittore iniziò il suo primo romanzo largamente autobiografico Ama la rivoluzione (Jacabook, 2012).
L'ultima grande fatica dello scrittore, Due secoli insieme (Controcorrente, 2007), scritta quand'era ormai ritornato nella Russia post-sovietica, ha come tema generale il rapporto tra Russi ed Ebrei nella Slavia orientale, e non sembrerebbe dunque aver a che fare con la Rivoluzione. Il primo dei due volumi tuttavia inizia così: «Nel mio lavoro, che dura da mezzo secolo, sulla storia della rivoluzione russa, mi sono imbattuto più di una volta nel problema delle relazioni tra russi ed ebrei». Com'è evidente, la Rivoluzione ha fornito l'innesco a questa ricerca storica nella quale Solženicynn dedica lunghi capitoli all'annosa questione dell'enorme numero di Ebrei tra le fila dei rivoluzionari russi e in particolare del Comitato Centrale del Partito comunista bolscevico.
Tra le poche cose di Solženicyn che riuscirono a passare le strette maglie della censura sovietica, oltre all'Ivan Denisovic va ricordato il racconto La casa di Matrëna (1963), anch'esso incluso nella recente pubblicazione di Einaudi in una nuova traduzione dall'originale. Primo esempio di «prosa di villaggio», il racconto presenta una nuova forma di opposizione alla Rivoluzione. Se, com'è stato scritto, «la più grande sofferenza di Solženicyn era la vittoria della Rivoluzione sulla Russia» (A. Nemzer) questo racconto inaugura la lotta culturale e linguistica della Russia contro la Rivoluzione. Lotta della Russia ortodossa e della lingua russa popolare, ricca di fraseologismi e di proverbi contro la lingua russa sovietizzata, anonima e piena di abbreviazioni e slogan. Anche questo è un aspetto di Solženicyn largamente sconosciuto all'Occidente. Lo scrittore non solo rappresentò nei suoi scritti il linguaggio di Lenin, «l'infuocata lingua della Rivoluzione» col suo lessico di odio e razzismo di classe, ma lottò attivamente contro l'impoverimento della lingua russa operata dalla pseudo-intelligencija di partito negli anni Trenta. Non a caso nel 1990 Solženicyn pubblicò un Dizionario russo dell'arricchimento linguistico in cui elencò migliaia di parole ed espressioni abbandonate dal lessico russo-sovietico e che invece possono rientrare in un uso esteso, ricco della lingua russa.
Ma la Rivoluzione è punto di riferimento anche dell'altro Solženicyn, quello che, accolto con tutti gli onori in Occidente, non risparmiò ai suoi ospiti critiche pungenti, denunciandone la mancanza di coraggio civile, l'uso irresponsabile della libertà, la censura del conformismo, il giuridismo senz'anima, la debolezza spirituale.
Accogliendo il premio «Cliché d'oro» da parte della stampa italiana nel 1974, concluse il suo intervento così (Il respiro della coscienza. Saggi e interventi sulla vera libertà 1967-1974, Jacabook 2015): «Abbiamo già imparato che l'abbattimento violento degli Stati, i colpi di mano rivoluzionari non aprono la via al radioso avvenire ma a una rovina ancora più grave, un arbitrio e una violenza peggiori di prima.
E se pure è destino che nel nostro futuro vi siano rivoluzioni salvifiche, devono essere rivoluzioni morali, vale a dire un fenomeno mai visto, qualcosa che tocca a noi scoprire, comprendere e realizzare».Superata la Rivoluzione del 1917, questa è la vera rivoluzione di Solženicyn, quella a cui ancora oggi chiama ognuno di noi.
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