"Glee": la rivincita dei perdenti sui bulli

Va in onda la seconda stagione della serie che ha incantato gli Stati Uniti e che è diventata un fenomeno sociale tra libri, cd e un esercito su Facebook

"Glee": la rivincita dei perdenti sui bulli

Dopo tre puntate qualsiasi telespettatrice vorrebbe andare a letto con il professore di spagnolo Will Schuester (Matthew Morrison). Solo che, tempo la decima puntata, qualsiasi telespettatrice ha già cambiato idea. Salvo tornare un pochino sui propri passi lentamente, a fatica, dopo l’episodio numero venti. È buono, bellino, generoso, pieno di ideali ma i suoi occhi sembrano pozzanghere spente e perde più spesso di quanto ci provi. È uno sfigato il professor Schuester come tutti quelli che compongono la compagnia di canto che ha ostinatamente messo in piedi: il «Glee club». A scuola, per difendere e motivare i suoi talentuosi nerds, si dà un gran daffare. Ma a casa, è sotto scacco di una moglie tremenda che finge perfino una gravidanza pur di tenerlo incollato a sé e anche al lavoro contrasta a fatica le angherie della collega Sue Sylvester (l’allenatrice delle bionde, machiavelliche cheerleader), una sulla quale dovrebbe fare un pensierino il Pentagono visto che potrebbe usare i suoi ormoni per la guerra chimica, perché senza uno «stronzo» non c’è mai una storia.

Ecco lui, Schuester, se ne sta appiattito per gran parte della serie (Glee, appunto, in onda con la seconda stagione dal 2 dicembre su Fox) fino a che, in maniera più o meno grottesca, riesce a ribellarsi un po’. Dalla moglie, che molla e prova a sostituire con la consulente scolastica, la svalvolata Emma Pillsbury, e dalla collega che in qualche modo riesce a «tirare dalla sua». In fin dei conti ha circa trent’anni, che è l’età in cui uno si sente finalmente giovane. Ma è ormai troppo tardi. Infatti poi...

E insomma quarterback, bulli dal cuore d’oro, cheerleader dalle menti diaboliche, competizioni, intrighi, intorcinamenti famigliari, drammi generazionali, un po’ di sesso e molti complessi. Si snocciola tra le gesta di questo gruppo di romantici disperati con la vocazione per musica e fallimenti e le storie personali di ognuno di loro la serie già divenuta cult in America e trasformatasi in fenomeno sociale. Ascolti record, copertine, un esercito di fan («i gleeks») che comunicano tra loro attraverso Facebook e Twitter e condividono codici e valori comuni, un album tratto dalle canzoni interpretate dai protagonisti in ogni puntata che ha già vinto due dischi d’oro grazie ai cinque milioni di copie, 13 milioni di brani venduti su Ituenes, un’applicazione Ipad, un gioco karaoke e uno per la Wii, un libro, un tour dal vivo... Le star di Hollywood che fanno a pugni per incastonare un loro cameo nella serie (nella seconda stagione sono già andate in onda in Usa le puntate con Gwyneth Paltrow e Britney Spears) e gli attori di Glee che, il giorno di pasquetta, sono stati invitati a cantare alla Casa Bianca da Obama. Perché tutto questo successo raccolto da un manipolo di “normalissimi”? Intanto l’ideatore della serie è Ryan Murphy (lo stesso di Nip/Tuck e Popular), che è già una spiegazione.

E poi perché, partendo da una scuola, Glee racconta la provincia americana. L’America vera, che non è New York e quindi non è né Sex and the City né Gossip Girl. È l’America che sarà. Non quella dell’individualismo egoista di George W.

Bush, non quella del finto solidarismo di Barack Obama, ma quella che «andrà in onda» a breve, che «tornerà in onda» a breve. L’America del riscatto che l’America ha sempre esportato e che dice: se ti impegni davvero, beh, allora non puoi che farcela.

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