Il governo si arrende agli statali fannulloni

Bruno Costi

Esistono lavoratori del pubblico impiego che ogni 3 mesi e mezzo di lavoro, stanno un mese a casa, conservando il posto e lo stipendio come si trattasse di un loro diritto: dati della Ragioneria Generale dello Stato.
Perché non nascano equivoci, diciamo subito che non si tratta della flessibilità del lavoro introdotta dalla Legge Biagi per favorire l’occupazione; è piuttosto la flessibilità delle autovacanze che il personale femminile degli enti pubblici non economici o del Servizio sanitario nazionale si autoassegna, totalizzando mediamente 75 giorni d’assenza l’anno, regolarmente retribuiti.
Eppure ci sono casi ancora più clamorosi, di statali fannulloni, tanto che un giuslavorista ed ex sindacalista della Cgil come Piero Ichino, ha dato scandalo proponendone il licenziamento.
Il fatto è che in un contesto giuridico e organizzativo del pubblico impiego nel quale l’occhio del padrone (lo Stato) è sempre lontano o assente dal posto di lavoro e il controllore (la magistratura del lavoro) è sempre e costantemente schierato per il mantenimento del posto di chi lo occupa anche senza starci, chi «ingrassa», protetto da politica e sindacato, sono proprio i fannulloni e chi dimagrisce sono invece i 150 mila precari.
Con un guizzo di concretezza sorprendente, il 4 novembre scorso, mentre la sinistra di lotta e di governo sfilava per le vie di Roma contro il precariato ed il sindacato si preparava ad uno sciopero degli Statali, il governo ha trovato 1,3 miliardi di Euro da mettere nella legge finanziaria, ha chiamato Cgil, Cisl e Uil e in un quarto d’ora ha firmato l'accordo per il finanziamento del nuovo contratto di lavoro del pubblico impiego che languiva da mesi: 3,5 miliardi tra stipendi e arretrati entro 55 giorni dalla firma del contratto a tre milioni e mezzo di persone, il che fa mediamente 86 euro al mese a testa.
Sicché avremmo tutti il diritto di sapere cosa lo Stato si è fatto dare in cambio; così come si usa in qualsiasi rinnovo del contratto di lavoro, i soldi sono l’ultima cosa che si decide, quella che quantifica e sanziona gli accordi normativi in base ai quali il datore di lavoro negozia il tipo di lavoro ed il modo di esercitarlo. Ed invece scopriamo che non si è negoziato nulla, perché nel pubblico impiego italiano si fa al contrario: prima si decidono gli aumenti e poi si aprono trattative con il sindacato per giustificarli.
Il governo ha fatto del pubblico impiego il terreno di una delle riforme annunciate più importanti. Sostiene giustamente che uno Stato che funziona è condizione per la competitività dell’intero Paese, che occorre non solo iniettare informatica e computer della pubblica amministrazione ma cambiare processi, riorganizzare funzioni, cancellare enti doppioni e usare il contratto di lavoro per creare disposizioni dove il premio, il merito.
Per provarci, il governo ha arruolato perfino un ministro ingegnere, ed ha cambiato nome al suo ministero che ora è per l’Innovazione nella pubblica amministrazione. Il ministro ha l’entusiasmo del neofita e il candore dello scienziato e gli vanno fatti molti auguri perché riesca nella missione impossibile di riformare i processi di funzionamento della pubblica amministrazione. Ma quale forza contrattuale potrà mai avere sedendosi al tavolo con Epifani, Bonanni ed Angeletti, quando costoro sanno che i soldi sono stabiliti e il consenso lo governano loro e non il ministro ingabbiato dalle leggi e da un governo di cui già si discute il «dopo»?
La vera e decisiva riforma del pubblico impiego non sta lì al tavolo contrattuale ma altrove: sta in una norma di legge che non c’è e che ci vorrebbe, che ribalti la sequenza prima i soldi e poi i contenuti e consenta di negoziare prima i contenuti dei contratti, premi e licenziamenti compresi, e poi stabilisca i soldi. E poi sta in un cambio di cultura e prassi nella magistratura che faccia vera giustizia smettendo di proteggere il posto di lavoro e l’impunità di fannulloni e parassiti.


Nella pagina introduttiva del Dpef 2007-2011, il ministro Padoa-Schioppa ha voluto una citazione colta di Immanuele Kant: «Coloro che dicono che il mondo andrà sempre così come finora - dice il filosofo - contribuiscono a far sì che l’oggetto della loro predizione si avveri». Noi non lo diciamo. Ma è il governo che deve dimostrarlo.
b.costi@tin.it

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