Lollobrigida e il granchio blu, Pichetto e i pannelli solari, Ciriani e l'agenda parlamentare. Da questa sera la semplice apparizione di un ministro nei telegiornali di Stato sarà equiparata a un golpe che ha cancellato all'improvviso 78 anni di democrazia. L'Italia è il Paese dove il buon senso regna più di quanto si immagini, peccato che le interminabili campagne elettorali mandino regolarmente in soffitta i ragionamenti pacati.
Un solco insormontabile ha esasperato i rapporti tra maggioranza e opposizione con il nuovo testo sulla par condicio. La classica materia di Palazzo, noiosa e cavillosa, usata sempre sotto elezioni per denunciare lo strapotere mediatico di qualcuno. Ieri Berlusconi, oggi la Meloni, tanto per intenderci.
Nel rimpallo di accuse tra i partiti, la sostanza è che lo spazio attribuito al governo, di fatto, viene scorporato dal computo totale. E la conclusione si annuncia paradossale: saranno alla fine gli stessi politici i supremi giudici di loro stessi. Cioè stabilire se Nordio che illustra la riforma della giustizia rientri nel diritto di informazione o sia uno spot mascherato per manipolare l'opinione pubblica. Oppure se Musumeci nel commentare un disastro naturale trovi il modo per lanciare messaggi elettorali subliminali. Al di là dell'ironia, il succo del discorso è banalmente questo. Il tribunale speciale della sinistra ha già emesso la sentenza in nome del popolo: «Siamo al regime mediatico» (Sandro Ruotolo, Pd), «Paese in deriva orbaniana» (Francesco Boccia, Pd), «Servizio pubblico megafono del governo» (Usigrai).
Gli archivi della politica sono pieni di
ministri mediatici che sfarfalleggiavano nei tg e poi sono spariti di scena quando credevano di aver acquisito una popolarità eterna. Le strade della par condicio, più che di buone intenzioni, sono lastricate dai Toninelli.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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