Cè qualcuno in Italia che non è angosciato per Piergiorgio Welby? Tutti, proprio tutti, cattolici e laici, ministri e sacerdoti, medici e giuristi, quando devono affrontare in pubblico e in privato i dilemmi che sono di fronte al Grande Ammalato, abbassano la voce e cercano le difficili parole per non emettere giudizi sulla vita e la morte di un uomo.
Il tribunale, che ha riconosciuto alla persona il diritto a rifiutare l'accanimento terapeutico ma nel contempo ha registrato la mancanza di una legge specifica che tuteli tale diritto, ha ingarbugliato ancor più la vicenda, già di per sé terribilmente complicata.
È stata coraggiosa la scelta di Welby di trasformare la sua condizione di prigioniero della tortura di una respiratore artificiale in un caso pubblico. Ma la sua generosità volta a giovare a quanti si trovano nelle sue stesse condizioni e vogliono fare una scelta analoga, ha paradossalmente avuto l'effetto opposto a quello che si proponeva.
Siamo infatti venuti a conoscenza che nelle strutture pubbliche e private viene spesso facilitato il trapasso in nome della pietà umana e della sapienza medica. È stato proprio Don Verzè a darne coraggiosa testimonianza senza reticenza. Nel caso di Piergiorgio, invece, ciò che molti malati hanno ottenuto e molti medici hanno effettuato - il distacco della spina con la sedazione del dolore - non è stato più possibile per il clamore della vicenda.
Perciò, se per un verso va reso merito ai radicali di avere portato all'attenzione pubblica una questione sempre più incombente con l'allungamento artificiale della vita, per un altro si resta sbigottiti di fronte al burocratico labirinto messo in moto che forse domani darà i suoi effetti ma oggi rende l'intera vicenda, umanamente, medicalmente e giuridicamente, più irrisolvibile di prima.
Non avremmo mai immaginato che il semplice rifiuto del trattamento sanitario, previsto dall'articolo 32 della Costituzione, divenisse una sarabanda in cui tutti emettono sentenze generali e nessuno si assume responsabilità precise. I medici chiedono che si pronuncino i magistrati, e questi invocano l'intervento legislativo dei parlamentari che preferiscono dichiarare sui sacri principi.
Ma il grande imbroglio non finisce qui: si è visto una ministra buonista che dichiara di non volere lasciare sole le famiglie degli ammalati mentre si immischia senza costrutto nel caso Welby; un ordine dei medici che emette sentenze senza senso perché la responsabilità appartiene solo alla coscienza deontologica del singolo medico; un consiglio superiore della sanità e un comitato etico che disquisiscono sui grandi principi senza alcun effetto sul caso urgente da cui hanno preso le mosse. Poteva accadere di peggio?
Molti hanno osservato, a ragione, che una vicenda così dolorosamente autentica, non doveva divenire il terreno per scontri politici, per conflitti ideologici, per rivendicazioni corporative e per evocazioni generiche del tutto inadeguate a cogliere la verità di un uomo di fronte al mistero della vita e della morte.
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