Grazia, sul tavolo della Consulta il conflitto tra Ciampi e Castelli

Al via l’esame del ricorso del Quirinale sull’attribuzione dei poteri nato dal caso Bompressi

Anna Maria Greco

da Roma

La Corte costituzionale torna al lavoro e la prima importante questione che si trova sul tavolo è il conflitto di attribuzioni sul potere di grazia. Il caso Bompressi, e in controluce quello Sofri, rimangono irrisolti per il braccio di ferro tra Quirinale e ministero della Giustizia, ma nella camera di consiglio del 28 settembre la Consulta esaminerà solo la questione preliminare sull’ammissibilità del ricorso, presentato a metà giugno dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
Una pronuncia favorevole è altamente probabile, ma nel merito della causa sul conflitto tra poteri dello Stato, della quale è relatore Alfonso Quaranta, l’Alta Corte entrerà solo tra qualche mese. Considerati i tempi tecnici necessari, il nodo sulla competenza dell’atto di clemenza potrebbe essere sciolto addirittura quando non saranno più al loro posto i due contendenti e cioè il capo dello Stato, il cui mandato scade a maggio 2006 (salvo rinnovo) e il Guardasigilli Roberto Castelli, se le elezioni politiche si terranno, come sembra, ad aprile. Un fatto che smorzerebbe le polemiche.
La questione è quella delle prerogative del Quirinale per la concessione della grazia chiesta da Ovidio Bompressi, condannato con Adriano Sofri e il latitante Giorgio Pietrostefani per l’omicidio del commissario Calabresi nel 1972. Ciampi è intervenuto solo per Bompressi, perchè Sofri non ha mai presentato la domanda di grazia, proclamandosi innocente, malgrado un ampio schieramento di politici e intellettuali si facesse sentire a favore dell’atto di clemenza.
Il 24 novembre dell’anno scorso il ministro Castelli ha rifiutato di appoggiare la domanda di grazia di Bompressi e di controfirmare un decreto voluto solo da Ciampi. «La Costituzione vigente - ha ricordato il ministero - pone in capo al ministro della Giustizia la responsabilità di formulare la proposta di grazia». Per il Quirinale, così sono stati violati gli articoli della Costituzione 87 (poteri del capo dello Stato) e 89 (controfirma ministeriale sugli atti del presidente).
Nella motivazione del ricorso, presentato dall'Avvocatura dello Stato, il presidente della Repubblica ha risposto a Castelli che «la concessione della grazia è un potere sostanzialmente presidenziale», la controfirma del Guardasigilli è «un atto dovuto» e non può costituire un «veto» alla decisione del Quirinale.
I giudici della Corte costituzionale dovranno, dunque, stabilire se il potere della grazia è da intendersi come «duale» (e, quindi, se è necessaria la controfirma del Guardasigilli), oppure se è di competenza esclusiva del capo dello Stato.
Alla Consulta qualcuno ricorda che finora è sempre stato ritenuto necessario l’accordo tra presidente e ministro e che «la prassi vale quanto la lettere della Costituzione». A favore dell’interpretazione dell’atto duale pesano oltre 100 anni di storia. Si risale addirittura a ben prima della nascita della Repubblica, quando il più importante costituzionalista dell’Italia liberale, ministro della Giustizia nel terzo governo Giolitti e poi presidente della Camera, Vittorio Emanuele Orlando, negò che la grazia fosse un’attribuzione di natura personale del re, residuo d’un diritto monarchico e, come tale, esclusa dalla responsabilità ministeriale.

Il grande giurista lo scrisse nel 1889 nei suoi «Principii di diritto costituzionale» e lo riaffermò anche all’Assemblea Costituente nel 1947. Da allora, ricordano all’Alta Corte, quest’affermazione è sempre stata ritenuta valida. E ora, che cosa è cambiato?

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