Ground Zero: l'11 settembre dieci anni dopo Il "diavolo capitalista" che ha sconfitto Osama

Howard Lutnick è sfuggito all’attentato che uccise 658 suoi impiegati. Dopo 48 ore volle che i sopravvissuti tornassero al lavoro. All’epoca fu criticato, oggi è il simbolo dell’orgoglio americano. Il ministro degli Esteri afghano: "La guerra a Kabul ha protetto l'Italia"

Ground Zero: l'11 settembre dieci anni dopo 
Il "diavolo capitalista" che ha sconfitto Osama

dal nostro inviato a New York

Per cominciare, domani si lavora. Cinque minuti di silenzio alle 8.43, poi altri cinque alle 10.28. Prima lavoro, durante lavoro, dopo lavoro. L’ha voluto Howard Lutnick e l’hanno accettato tutti i dipendenti. Si può piangere facendo soldi, si può far soldi piangendo, non c’è problema.

Dentro l’androne hanno messo un elenco. Cominci: Andrew Anthony Abate della Cantor Fitzgerald; Vincent Abate, della Cantor Fitzgerald, Laurence Abel della Cantor Fitzgerald. Continui, quattro, cinque, sei, dieci, venti, trentasette, cinquantadue, centoventisette. Seicentocinquantotto: 6-5-8. Ancora: 658 su 2.753 morti erano della Cantor Fitzgerald. Uno su quattro. Stavano seduti nei loro uffici dal 101° al 105° piano della Torre Nord. Bin Laden li ha disintegrati: domani i superstiti, i successori e i familiari li ricorderanno lavorando. Nessuno s’indigna, nessuno si vergogna. È finito quel tempo, perché Lutnick non è più lo squalo, ma il totem dell’America che si riprende. Non c’era, quel giorno. Come nei film: il grande manager, il ricchissimo manager da mezzo miliardo di dollari, l’impegnatissimo manager che una mattina deve accompagnare la figlia per il primo giorno di asilo. Era l’11 settembre 2001. I suoi morivano nella più grande tragedia della storia, lui no. Seicentocinquantotto. Tanti, praticamente tutti, compreso Gary, il fratello di Howard.

Cantor Fitzgerald diventò un simbolo doppio: di tragedia e di vergogna. Perché il 13 settembre la società di brokeraggio aveva già ripreso a lavorare: Lutnick aveva obbligato alcuni superstiti a collegarsi al web e alla intranet aziendale da casa pur di non fallire. Due giorni dopo smise anche di pagare gli stipendi a tutti: non sapeva ancora i nomi dei morti, allora meglio sospendere i pagamenti in attesa delle verifiche e poi riprenderli solo a censimento finito. Diavolo, dissero a Howard. Diavolo, sì. Oggi è il redentore, è un angelo laico, perché la sua storia è stata masticata, digerita, metabolizzata, analizzata e alla fine è uscita opposta rispetto a come sembrava: Howard è il simbolo non dell’avidità, ma della forza di volontà. Rimboccarsi le maniche, dicono. Banale, sì, però reale. Significa che c’è un Paese che senza mettere le mani nelle macerie ha comunque contribuito in un momento come quello di dieci anni fa. Come a dire: ci siamo e ci saremo. Lutnick è la faccia dell’America del 2011: quella che ha razionalizzato l’eroismo di pompieri, soccorritori e volontari e ha aggiunto al pantheon dei miti anche quelli che dieci anni fa sembravano soltanto degli sciacalli.

Perché Lutnick fu accusato di tutto: insensibilità, vigliaccheria, cattiveria. Gli dissero che non aveva rispetto neanche per la sua famiglia. Nessuno gli chiese: scusa, ma perché lo fai? Neanche ora fanno domande, perché hanno risposte: il cinismo, l’avidità, l’insensibilità erano una forma di dignità. Bin Laden attaccò il capitalismo e la voglia di produrre ricchezza, no? E Lutnick ripartì immediatamente a provare a macinare soldi. Ci furono aziende chiuse per giorni, la Cantor no: meno di 48 ore dopo gli attacchi era operativa. Senza falso buonismo, senza falso politicamente corretto. New York è costruita sul denaro e non per questo significa che sia immorale. Allora lavoro, profitto, dollari, ricchezza. Anche a cadaveri caldi, anche con i morti senza nome. Ancora adesso non piacerà a mezzo mondo, eppure l’America ha capito e ha smesso di trattare Lutnick come un appestato. Ora è un’icona. Il tempo ha aiutato a incasellare le sue scelte: i parenti dei dipendenti che all’epoca rimasero sconvolti dalla decisione, oggi sono tutti con lui. Molti di loro sono stati assunti dall’azienda dopo gli attacchi. Non solo: ha pagato i dividendi a tutti, compresi i 658 lavoratori che non ci sono più, aiutando così le famiglie. Poi ancora: secondo il Relief Fund, Cantor Fitzgerald è l’azienda che in assoluto ha versato più fondi al comitato dei parenti delle vittime degli attentati e ai parenti dei suoi dipendenti morti ha liquidato un risarcimento che va dai centomila dollari in su. Il 25 per cento di tutti i profitti, fino alla fine dei giorni dell’azienda, andrà al fondo di sostegno ai parenti delle vittime.

Prima a quelli della Cantor, poi anche agli altri. Dov’è il cinismo? Dov’è la cattiveria? Howard è il paradigma dell’America che ricorda i suoi morti. Piange, esattamente come faceva lui ogni volta che lo invitavano in tv a parlare del fratello morto nelle Torri. Poi, dopo aver pianto, si dà una mossa: sbilenco nelle uscite, poco elegante nei ritratti che la stampa buonista e radical chic ha cercato di fare di lui. Eppure incredibilmente vicino a chi dei suoi è rimasto e ai familiari dei lavoratori che sono morti. I pompieri scavavano a mani nude per cercare di trovare i resti delle migliaia di persone schiacciate sotto il crollo del World Trade Center, mister Cantor usò le armi che aveva: un computer e la missione di fare soldi per sé e i suoi clienti. S’indignino ancora gli ipocriti che commemoreranno in silenzio le vittime e poi torneranno a pensare che in fondo gli Stati Uniti se la sono cercata.

L’America ha scelto i Lutnick. Non si vergogna della ricerca della felicità attraverso il denaro, no. Cantor, in questi dieci anni, è cresciuta: più ricca e più forte di dieci anni fa. E questo è lo schiaffo più grande a Bin Laden, o al suo fantasma, o alla sua icona che aleggia ancora a New York e nel resto dell’Occidente. Lui voleva annientare il capitalismo americano, l’America ha risposto con il capitalismo. Cantor di più: 658 nomi e accanto a ognuno una somma di denaro, conquistata da cadaveri, ma guadagnata comunque. Lutnick è l’emblema. Non s’è convertito lui a una vita diversa, è cambiata solo la percezione che gli altri hanno di lui: dieci anni fa l’avevano preso per uno senza cuore, senza anima, senza sussulti, senza emozioni. Hanno capito un’altra verità.

Le lacrime nei giorni delle lacrime, i pianti in quelli dei pianti, le parole in quelli delle parole, il lavoro in tutti. Howard è una faccia, una storia, un simbolo. È come una bandiera a stelle e strisce piantata nel giardino.

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