Un atto d’accusa senza possibilità d’appello. Contro i magistrati ma anche contro i giornalisti, colpevoli di abusare indegnamente delle intercettazioni telefoniche. I primi per pigrizia, i secondi per morbosità mascherata da «completezza dell’informazione». Una sentenza che sembra scritta oggi e che invece risale a ben cinque anni fa, al 19 giugno 2006, quando uscì sulle pagine di «la Repubblica », a firma Giuseppe D’Avanzo. Sì, avete letto bene. L’autore della severissima reprimenda che denunciava «i due abusi incrociati e sovrapposti che provocano la barbarie della civiltà » e invocava «la tutela della privacy dei singoli » dopo che sul «Corriere della Sera » erano uscite le intercettazioni di Vittorio Emanuele di Savoia, è lo stesso Giuseppe D’Avanzo che da più di un anno veste i panni del novello Torquemada. E che cavalcando le intercettazioni e le rivelazioni sulla vita privata del premier, conduce una battaglia a tutto campo contro il Cavaliere. La coerenza forse non sarà una virtù ma a rileggere quell’articolo di cui pubblichiamo ampi stralci forse qualcuno proverà un po’ divergogna.
di Giuseppe D'Avanzo
Siamo travolti dalle intercettazioni telefoniche. Da quasi un anno ci piovono addosso decine di migliaia di frasi rubate. Cominciammo con la moglie del governatore della Banca d’Italia e baci in fronte. Oggi siamo al Savoia e alle sue voglie pazze.
Nel frattempo, abbiamo sbirciato molti mondi. Il mondo taroccato di Stefano Ricucci e dei suoi amici del «quartierino». Il pianeta politicamente ambizioso di Giovanni Consorte. E poi il mondo sotterraneo di Luciano Moggi; di arbitri in cerca di gloria; di giudici in cerca di un biglietto di tribuna; di pubblici ministeri in cerca di notizie per l’amico da proteggere. Non si salva nessuno, pare(...).
In questo teatro non c’è alcun attore innocente e soprattutto non c’è nessuno che faccia il suo lavoro con misura e rispett o degli altri, salvo rimproverare agli altri intemperanze e violazione della privacy. Naturalmente, i n prima fila c’è la magistratura.
L e intercettazioni telefoniche, informatiche, telematiche e ambientali sono mezzi di ricerca della prova previsti dalla legge, e questo s i sa. Possono essere disposte solo per reati di particolare gravità e, con l’autorizzazione di un giudice, per «gravi indizi» e quando sia «assolutamente indispensabile a i f in i della prosecuzione delle indagini».
È una estrema ratio che dovrebbe trovare il suo limite nell’articolo 15 della Costituzione: «La libertà e segretezza di ogni forma d i comunicazione sono i nviolabili». In realtà una magistratura pigra abusa delle intercettazioni. Con quel metodo di lavoro invasivo, si afferra rapidamente i l risultato «oggettivo» senza dannarsi troppo l’anima.
Oggi si intercetta per il piccolissimo spaccio e per il grande traffico di droga. Per l a manipolazione di una Opa e per una truffa di poche centinaia d i migliaia d i euro. È sufficiente contestare l’associazione per delinquere. L a bulimìa intercettatoria h a numeri spaventosi che oggi non hanno confronti internazionali.
Secondo l’Eurispes, negli ultimi dieci anni, sono state intercettate in Italia circa 30 milioni di persone; nel 2004 per l e intercettazioni sono stati spesi o ltre 300 milioni di euro e il 2005 h a registrato una spesa ancora maggiore. Nel 2001 i telefoni intercettati sono stati 32.000. Sono diventati 45.000 nel 2002. 77.615 nel 2003. 92.781 nel 2004 e nel 2005 hanno superato i 107.000. Considerati i tempi medi delle intercettazioni, circa 45 giorni, ogni anno sarebber o intercettate oltre u n m ilione e 500.000 persone.
Non è solo l a magistratura a rendere ipertrofico il meccanismo. N e abusa la polizia giudiziaria quando diffonde le intercettazioni per mettere u n pubblico ministero riottoso d inanzi al fatto compiuto o per condizionare le indagini.
Ne abusano gli avvocati che, secondo convenienza, scaricano in pubblico le «carte» dell’altro imputato per proteggere, dal clamore o dalle responsabilità, l’assistito che paga la parcella.
Prima conclusione, allora. Le intercettazioni sono necessarie alle indagini, ma non tutte le indagini hanno bisogno di intercettazioni. E tuttavia se le intercettazioni hanno sempre di più un effetto devastante per il diritto dei cittadini non lo si deve soltanto a quel che finisce negli atti giudiziari, ma all’uso scapestrato e allegro che si fa di quegli atti. La pubblicazione di quelle carte, al di là di ogni necessità, è quasi sempre colorata da una irritante ipocrisia. Per non rimanere tartufescamente nel vago (anche se chi è senza peccato scagli la prima pietra) si può parlare di come il Corriere della Sera ha maneggiato l’affare giudiziario del Savoia.
Editoriale rituale di Piero Ostellino che censura «le gigantesche e rumorosissime inchieste poi finite in una bolla di sapone». Qual è l’inchiesta? In sette pagine piene non si riesce a capire di che cosa si sta parlando, quali sono i fatti che hanno provocato l’indagine e gli arresti. La cronaca dell’affare è infatti soltanto a pagina 6.
Non pare essere quello il tassello più importante. Il maggiore rilievo è affidato da pagina 2 a pagina 3 a sbirciare nel buco della serratura.
A sbattere nero su bianco chiacchiere telefoniche, nomi, facce, storie di sesso vero o presunto, turpiloqui, vaniloqui, millanterie e arroganza.
Sembra essere una curiosità morbosetta il solo interesse pubblico che il giornale diretto da Paolo Mieli attribuisce all’avvenimento. Chi fa sesso con chi. Come. Dove (...).
È la seconda questione. Il giornalismo italiano - tutto il giornalismo italiano, nessuno escluso - diffonde a piene mani intercettazioni non per fare informazione, per rispettare quel «patto etico » con il lettore che gli impone di rendere (anche con frasi rubate) comprensibile la realtà, di spiegare per quanto è possibile che cosa è accaduto e perché. Quelle frasi rubate sono pubblicate per mero scandalismo. Per voyeurismo.
Il giornalismo c’entra come il cavolo a merenda. A chi fa i giornali non interessa sapere di che cosa è responsabile, se è responsabile, il Savoia e la sua miserabile corte, a ricostruire il contesto che solo rende possibile comprenderne gli errori o i reati.
Vuole soltanto raccontarne la vita oscura, le miserie, le volgarità, le voglie, come se ci fosse un delizioso godimento a scoprire il mostro nella faccia dell’altro, nella vita degli altri.
L’abuso delle intercettazioni della magistratura non ha nulla a che fare con l’abuso che ne fa il giornalismo italiano, ipocritamente dissimulato dalle consuete litanie contro la magistratura e da quella stupidaggine che nelle redazioni suona così: «Si pubblica tutto ciò che abbiamo» anche se il più candido di noi sa che è vero per alcune carte ma non per tutte, naturalmente. I due abusi incrociati e sovrapposti provocano la barbarie della civiltà che abbiamo sotto gli occhi.
In un Paese dove il crimine di mafiosi e colletti bianchi è patologico, sarebbe necessario un dibattito pubblico che possa tenere insieme le necessità investigative, la tutela della privacy dei singoli (soprattutto se non indagati, soprattutto se le intercettazioni personali sono irrilevanti per le indagini), un diritto-dovere di informare e di essere informati che trovi limiti nell’interesse pubblico e nel diritto altrui.
Sarebbe sufficiente soltanto ritrovare le ragioni di codici deontologici che sappiano essere condivisi e rispettati. Finirà, come sempre in Italia, con una nuova legge, con un nuovo reato iscritto nel codice penale. Con la stessa impunità e barbarie.(Articolo tratto da Repubblica del 19 giugno 2006)
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