La guerra delle etichette

Le multinazionali vogliono sulle confezioni dei cibi un semaforo che segnali grassi e zuccheri. Il "made in Italy" insorge: un trucco contro di noi

La guerra delle etichette

Un semaforo rischia di mettere al tappeto il «made in Italy» dell'alimentare. Il semaforo è quello che sei multinazionali del cibo (Coca Cola, Mars, Mondelez, Nestlé, Pepsi e Unilever) vogliono introdurre sulle etichette: attraverso i colori rosso, giallo e verde evidenzierà con immediatezza la maggiore o minore «bontà» nutrizionale degli alimenti confezionati. I criteri presi in considerazione saranno quattro: grassi, grassi saturi, zuccheri e sale. La luce rossa indicherà che si superano le dosi consigliate, e così via fino al rassicurante verde.

Tutto bene? Una meritoria iniziativa di multinazionali socialmente responsabili, preoccupate per la salute dei loro clienti? Sarebbe bello pensarlo, ma l'impressione è che le cose siano un po' più complicate e il primo indicatore è dato dalla furibonda reazione delle aziende legate alla filiera della tanto celebrata «dieta mediterranea». Senza parlare delle prime dichiarazioni del più grande gruppo italiano del settore, la Ferrero. Francesco Paolo Fulci, ex ambasciatore e responsabile degli Affari istituzionali del gruppo di Alba, appena l'idea delle etichette semaforo ha fatto capolino, l'ha liquidata con parole feroci: «È un'impostura, (...)

(...) un sistema del tutto fuorviante che non aiuta affatto i consumatori. Con questo tipo di etichettatura popcorn e CocaCola avranno un bollino verde, ma l'olio d'oliva il bollino rosso. Così si fa credere alla gente che mangiare schifezze sia salutare, è protezionismo industriale camuffato sotto l'insegna del salutismo».

La guerra delle etichette, insomma, è scoppiata. Ma come è nato questo inedito conflitto tra i produttori del cibo che finisce ogni giorno sulle nostre tavole? La storia inizia in Gran Bretagna nel 2013, quando il Dipartimento della salute introduce un sistema di etichettatura, Traffic Light, «semaforo» per l'appunto, che classifica i cibi come più o meno sani utilizzando tre diversi colori. Ufficialmente il metodo è volontario, ma viene fortemente raccomandato dal governo e adottato dal 98% dei supermercati. Di fatto diventa dunque obbligatorio. E suscita più di una perplessità. «La prima incongruenza è che le soglie da non superare e da cui dipende l'attribuzione dei colori, vengono calcolate su 100 grammi di prodotto», spiega Rolando Manfredini, responsabile qualità di Coldiretti. «Il risultato è che per esempio l'olio diventa automaticamente rosso, anche se nessuno al mondo ne consuma 100 grammi in una volta, al massimo parliamo di un cucchiaino».

VIVA LA CHIMICA

Non solo. «Le indicazioni prescindono non solo dalle concrete modalità di consumo, ma anche da ogni altra proprietà nutritiva dei prodotti», prosegue Manfredini. «Per esempio non si tiene conto dei polifenoli dell'olio, che hanno importanti proprietà benefiche, o dell'arginina, un aminoacido contenuto nel Parmigiano Reggiano che tutti gli studi considerano importante per un'alimentazione equilibrata».

Basta un confronto per illustrare le conseguenze paradossali del metodo inglese: quello tra le più diffuse bibite frizzanti, magari nella versione Diet, e un naturalissimo succo di frutta. Le prime, vero e proprio concentrato di prodotti chimici, in cui gli zuccheri sono sostituiti da dolcificanti sintetici, vengono classificate come sane. Al contrario del succo che contiene fruttosio e per questo fa scattare l'allarme.

Il sistema inglese è insomma più che discutibile e anche per questo l'Unione europea l'ha bocciato considerandolo come un illecito ostacolo alla concorrenza. Di fronte alle proteste britanniche si è aperto un contenzioso ancora pendente di fronte alla Corte di giustizia Ue (che verrà con tutta probabilità a cadere con la Brexit). Nel frattempo però il «made in Italy» ha pagato un prezzo assai salato. Una ricerca di Nomisma ha preso in considerazione le vendite di alcuni prodotti (italiani ma anche francesi) sul mercato britannico prima e dopo l'introduzione del semaforo. Il calo dei ricavi è stato rilevante. Altri Paesi, come quelli scandinavi o la Francia, hanno introdotto sistemi, più o meno sperimentali, analoghi. E qui sono entrate in scena le multinazionali citate all'inizio. Di fronte alla possibilità che ogni Paese si muova per conto suo, con le relative complicazioni produttive, rilevanti soprattutto per gruppi integrati a livello europeo, hanno deciso di coordinarsi e sposare l'etichetta semaforo all'inglese. Unica concessione alle proteste: le soglie consigliate non verranno calcolate su 100 grammi ma in base a una singola porzione. La novità è stata presentata come volontaria e sperimentale, ma la speranza è che finisca per imporsi come standard.

UN CORO DI «NO»

Dall'Italia per ora sono arrivate solo proteste. Il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina ha scritto una lettera alla Commissione europea chiedendo un intervento delle istituzioni comunitarie «per impedire la diffusione di un elemento così distorsivo del mercato». Confindustria, attraverso la vicepresidente Lisa Ferrarini, ha annunciato iniziative e bocciato come «ingannevole» la proposta. Anche le associazioni di consumatori sono scettiche. «Dal punto di vista teorico l'etichetta semaforo aggiunge alle informazioni nutrizionali già previste per legge solo una maggiore leggibilità», spiega Emmanuela Bertucci, avvocato dell'Aduc. «Il rischio però è che il consumatore sia tratto in inganno. Con un colore verde costruito in laboratorio su un determinato parametro, si rischia di dare una patente di salubrità a un cibo che sano non è».

Luigi Scordamaglia, presidente di Federalimentare è ancora più drastico: «Il sistema distorce e inganna la percezione del consumatore e tende a incentivare l'uso eccessivo di prodotti di livello inferiore. Gli ingredienti di eccellenza, come quelli usati dalle aziende italiane, risultano discriminati». E il peggio, secondo Scordamaglia, è che l'Europa ha deciso di chiamarsi fuori: «Il commissario alla Salute Andriukaitis ha detto che il problema andrà risolto dai singoli Paesi. Ma è inutile chiedere un ruolo più alto per l'Ue, se poi è proprio l'esecutivo comunitario a tirarsi indietro rispetto a scelte fondamentali».

Il manager di un grande gruppo alimentare sintetizza a modo suo la vicenda: «Il semaforo è un'indovinata trovata di marketing: le multinazionali sostituiscono ingredienti naturali con sostanze sintetiche per ridurre i costi. E poi cercano di farlo passare come un merito».

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