Guido Rossa bandiera Cgil. Ma solo da morto

Lo slogan contro le Br sull’ultima pagina dell’Unità recita: «2007, continuano a farci del male»

Guido Rossa bandiera Cgil. Ma solo da morto

da Milano

Il suo volto campeggiava ieri sull’ultima pagina de l’Unità. Era un uomo forte, Guido Rossa. Scalava le vette dell’Himalaya, ma non solo quelle. Quando all’Italsider di Genova, dove lavorava come operaio, fu scoperto un postino delle Br, Francesco Berardi, lui corse a denunciarlo. Nessuno lo seguì. E le Br lo uccisero come un cane. Era il 24 gennaio 1979, una delle giornate più cupe degli anni di piombo. Ai suoi funerali c’erano 250mila persone e la figlia Sabina, allora ragazzina e oggi parlamentare dei Ds, scrive inquieta: «Com’è stato possibile che mio padre, il giorno della sua testimonianza, si sia ritrovato completamente solo? Le due immagini, quella della folla che riempiva piazza De Ferrari e quella di papà solo davanti a un carabiniere e poi davanti a un giudice, stridevano fortemente».
Un giudizio assai affilato quello che Sabina Rossa consegna a Giovanni Fasanella nel libro Guido Rossa, mio padre, commovente rievocazione di un uomo coraggioso e solo, e ancora più coraggioso perché abbandonato da tutti.
La domanda, imbarazzante e pesante come un macigno, torna davanti al paginone dell’Unità che la Cgil ha dedicato al suo militante eroe: il suo volto e sotto, in campo nero, una didascalia: «1979 - Guido Rossa. Operaio, sindacalista, assassinato dalle Br».
Nella parte bassa della pagina, la storia vira verso l’attualità: «2007, Continuano a farci del male. Contro il terrorismo. Cgil». E a scendere, quasi incidendo il necrologio più alto, una chiusa ideale: «Cgil. Sempre dalla tua parte».
E allora conviene immergersi di nuovo nella lettura del libro, doloroso come una puntura di spillo. La pagina chiave è quella in cui Sabina racconta la sera del 25 ottobre 1978, tre mesi prima del delitto. Era stata scoperta la talpa all’Italsider. Il padre si appartò con la mamma in cucina e le raccontò com’era andata. «Mio padre, al momento di testimoniare davanti al comandante dei carabinieri, si era ritrovato solo. Tuttavia - aggiunge la figlia - aveva ugualmente firmato assumendosi la responsabilità anche per quei compagni di lavoro che avevano visto e che sapevano, ma non avevano avuto il coraggio di unirsi a lui nella denuncia».
Era un uomo che non amava le mezze misure, Guido Rossa. E lo spiegò quella sera in cucina con una frase che stride con quello slogan volonteroso: «Sempre dalla tua parte». «Ognuno - disse Guido alla moglie - dovrà assumersi le proprie responsabilità. Io ho fatto il mio dovere e ho riferito quanto ho visto». Quasi un quarto di secolo dopo Sabina riflette: «In quelle parole non c’era incertezza o ripensamento; ma una certa amarezza, quella sì, traspariva chiaramente».
Fu lasciato solo: dai colleghi che avevano visto Berardi, dal consiglio di fabbrica, dai capi della vigilanza dell’Italsider che «si rifiutarono di ascoltare quei delegati che volevano aggiungersi nella denuncia». Da tutti. «Mia madre era spaventata. E nonostante papà tentasse di tranquillizzarla, la tensione nell’aria era forte. “Perché tu solo hai firmato? Perché hai dovuto esporti tanto?”, lo rimproverò».
Con quella denuncia, solitaria come certe arrampicate, Guido Rossa firmò la propria condanna a morte. La mattina del 24 gennaio 1979 uscì di casa all’alba, come al solito. Verso le sette Sabina si avviò verso scuola: «Non vidi i frammenti dei vetri sparsi a terra, né i bossoli di alcuni proiettili. Eppure, c’ero passata vicino. Soprattutto, non mi accorsi dell’auto, parcheggiata ancora lì, com mio padre al posto di guida, accasciato sul volante, ormai senza vita». A sparare il colpo mortale Riccardo Dura, a sua volta abbattuto un anno dopo dai carabinieri nel covo di via Fracchia, a cinquanta metri di distanza. Berardi, invece, si suicidò nel carcere speciale di Cuneo.
Questi sono i fatti. Il resto appartiene all’album delle buone intenzioni. O dei rimpianti. Oggi la Cgil prende quasi ferocemente le distanze dai militanti e dagli iscritti finiti nella retata dei magistrati di Milano e nell’inchiesta sulle nuove Br.

Allora, il sindacato vigilava. Poi dopo il funerale e l’abbraccio alla famiglia dei 250mila, «anche i compagni di fabbrica di papà - racconta Sabina - chiesero a mia madre di partecipare all’azione legale insieme a lei». Ma lei non accettò.

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