HAMSUN L’inquietudine e la modernità

Il nodo dei rapporti tra lo scrittore norvegese e il nazismo: perché vi aderì senza pentirsi?

È difficile rispondere a una domanda del tipo: perché un grande scrittore aderì con convinzione al nazismo fino alla fine dei suoi giorni e senza mai pentirsi? È però possibile provare a porre alcune domande aperte, che servano a chi, oggi, desideri addentrarsi in un’opera centrale della letteratura europea, quale quella di Knut Hamsun.
Si deve innanzitutto menzionare l’adesione di Hamsun al nazismo nei suoi termini più espliciti e clamorosi. Questa non ebbe luogo nell’opera letteraria ma in una serie di articoli che pubblicò durante gli anni del Reich, dal ’33 al ’45, per lo più su giornali norvegesi. Hamsun appoggiò il nuovo Stato tedesco, difendendolo con stile incisivo e tagliente da tutti i suoi detrattori; anche così Hamsun si dimostrò, purtroppo, grande scrittore. Odio e indignazione maggiori scatenarono gli articoli pubblicati dal ’40 al ’45, quando la Norvegia era occupata dai tedeschi, poiché l’autore difese gli occupanti contro la quasi totalità della popolazione, che opponeva resistenza pagando un alto tributo. Lo scandalo raggiunse il culmine con la commossa necrologia fatta pubblicare all’indomani della morte di Hitler, «...guerriero per l’umanità... figura di sommo riformatore».
Dopo la guerra si svolsero in Norvegia molti processi contro i collaborazionisti; anche Hamsun fu sottoposto a perizia psichiatrica, processato e condannato a una forte ammenda pecuniaria. La perizia, che in pratica lo dichiarò incapace di intendere e di volere, fu una soluzione di comodo. Hamsun era molto anziano e, nonostante tutto, un monumento della letteratura nazionale; non si osò metterlo in prigione. Un merito di Processo a Hamsun, il controverso romanzo documentario di Thorkild Hansen pubblicato nel 1978, è stato quello di smascherare la comodità di tale versione. Essa permetteva di pensare che Hamsun diventò nazista perché anziano, nella fase discendente della sua creatività, isolato e sordo. L’Hamsun nazista «non era più lui», non poteva capire; si salvava così l’Hamsun buono, il grande scrittore, e si scartava quello nazista e traditore.
Hamsun stesso smentì tale ipotesi nel ’49, quando pubblicò il suo ultimo capolavoro letterario, Sui sentieri dove cresce l’erba, libro di annotazioni e pensieri scritti durante la prigionia. Qui Hamsun rievoca nostalgicamente, sognando a occhi aperti, anche la figura di un umile vagabondo, Martin, che gli sembra di incontrare nel bosco. E il viandante è una delle figure più ricorrenti dell’universo letterario hamsuniano. Nello stesso libro Hamsun può ribadire però la sua fede nel grande, millenario regno germanico e può rendersi responsabile di un’omissione grave: per Hamsun, nel ’49, la Shoah non è mai esistita.
La difficoltà della nostra questione riguarda anche che cosa intendiamo per nazismo. Intendiamo un culmine di azioni storiche ispirate a oppressione, odio e sadismo? Intendiamo cioè «solo» il totalitarismo, la guerra e lo sterminio degli ebrei? Oppure pensiamo a una costruzione ideologica progressiva, a una visione di società, a un’utopia di liberazione dai mali della complicata e disordinata civiltà moderna? In questa seconda accezione più ampia il nazismo include uno spettro variegato di discorsi, che sono poi confluiti nelle azioni storiche di cui si è detto. Secondo noi, la scrittura hamsuniana, anche quella giovanile e quella poeticamente più innovativa, partecipò a tale costruzione di discorso e ideologia. Fu una delle molte voci che, tra Otto e Novecento, prepararono il terreno. Hamsun non assunse il nazismo dall’esterno; contribuì a costruirlo dall’interno con il prestigio riconosciuto alla parola letteraria. E quando questa parola diventò internazionalmente autorevole (nel 1920 Hamsun vinse il Nobel), molti dei suoi libri diedero sostegno all’ideologia nazista.
Questa nostra affermazione, ci rendiamo conto, non è priva di complicazioni. Solo parti, aspetti, o addirittura dettagli dei testi narrativi di Hamsun possono essere considerati elementi costitutivi dell’ideologia nazista; nessuno potrebbe mai definirli racconti nazisti nella loro totalità. Il problema è come riferire la parte al tutto, e tale problema è anche una questione ermeneutica, riguarda cioè l’orizzonte storico in cui l’atto interpretativo si colloca. Ad esempio non è indifferente, per chi interpreta, leggere alcuni enunciati hamsuniani sugli ebrei (non frequenti eppure esistenti) prima o dopo la sua esplicita adesione al nazismo, e prima o dopo la Shoah. La convinzione diffusa, anche tra i critici, è che Hamsun, per quanto filonazista, non fosse antisemita; l’antisemitismo non gli interessava e le menzioni in tal senso che troviamo nei suoi testi narrativi sarebbero trascurabili.
Vediamo cosa avviene in Terra favolosa (1903), descrizione del viaggio compiuto in Russia e nel Caucaso nel 1899. Qui Hamsun, narratore in prima persona, riporta in modo insistito i suoi incontri, sempre fastidiosi, con persone ebree. Sul treno egli incontra un sedicente ufficiale che lo perseguita: «La sua faccia è sgradevole, ebrea... Il suo muso da ebreo è insopportabile». Sullo stesso treno il protagonista vede altri ebrei e armeni; sono tutti commercianti, caratterizzati dalle attività di scambio, dalle transazioni con il denaro. Intanto, la visione dal finestrino della terra, dei contadini e dei pastori - e del loro ritmo lento ed eterno - è connotata positivamente. Si sviluppa a poco a poco, in questo racconto genialmente composito, un significativo leitmotiv narrativo. Un ebreo armeno infido e imbroglione cerca di commerciare con il protagonista, che declina; ricompare poi l’ebreo falso ufficiale, e anche costui cerca di ricattare, minacciare e spillare soldi al protagonista: «era un imbroglione, un ebreo che tentava di estorcere denaro». Questo persecutore risulta infine ricercato dalla polizia, la quale insegue proprio una persona «con un aspetto ebreo, un ebreo», infine arrestandolo e liberando il protagonista da altri fastidi. In questo straordinario racconto di viaggio, la ricerca di «pace» nel Caucaso corrisponde a un sogno regressivo di società preindustriale, lenta e a contatto con gli elementi. È significativo che, proprio attraversando il Caucaso dei pastori, un topos frequente nella cultura russa, il protagonista ritorni alla sua misera infanzia nel Nordland norvegese, letta alla luce dello stesso mito pastorale. La conclusione del viaggio è, allora, una vera beffa e fonte di grande smarrimento. Hamsun finisce infatti a Baku, la città petrolifera, il cuore nero e profondo dell’incubo industriale da cui cercava di fuggire.
Molta cultura moderna di inizio ’900, anche molta cultura progressista e di sinistra (ed ebrea!), riconosceva la fondatezza dell’avversione di Hamsun all’industrialismo, e percepiva la stessa crisi profonda rispetto alla moderna condizione di sradicamento. In tal senso si poteva leggere e condividere - nella nostalgia hamsuniana e nei suoi miti del viandante, del pastore e del contadino - un messaggio che oggi potremmo definire ecologista e pacifista. Per quanto riguarda l’antisemitismo, poi, le opinioni di Hamsun non erano uno scandalo. L’antisemitismo è storia secolare in Europa e, tra Otto e Novecento, durante lo sviluppo del capitalismo avanzato, il luogo comune sugli ebrei legati ai soldi diventò diffusamente ciò che Hannah Arendt definisce «la finzione centrale» sugli ebrei, quella che li vuole, come razza, burattinai della finanza mondiale.
Rispetto a questi problemi il critico norvegese Atle Kittang ha una buona proposta. Il testo hamsuniano, osserva Kittang, contiene certamente opinioni che non possiamo condividere. Contiene però, in quanto testo letterario, anche procedimenti autoironici e decostruttivi che smontano dall’interno del testo la forza e l’univocità dell’enunciato, in modo che questo non diventi mai vero e proprio «messaggio», contenuto tendenzioso del testo. È un processo di destabilizzazione dei significati che secondo Kittang porta Hamsun alla dissoluzione di ogni valore o punto fermo, a una forma di disillusione e nichilismo del soggetto moderno che Kittang riassume nella triade che dà il titolo al suo studio critico su Hamsun del 1984: Aria, vento, nulla. La sua proposta critica è saggia, perché salva la nostra passione letteraria per questo grande scrittore, dandoci una via d’uscita dal possibile blocco che deriva da una lettura etica e politica del testo hamsuniano. Nel contempo, non ci rende ciechi rispetto agli esiti inquietanti e potenzialmente nazisti dei testi stessi, consigliandoci una lettura vigile.
Storicamente è stato possibile leggere ed esaltare quei testi da una prospettiva nazista.

Da parte nostra, dovremmo cercare una lettura che, mentre coglie la poesia di Hamsun e la sua spesso geniale rappresentazione dell’inquietudine moderna, non dimentichi che il nazismo è nato dagli uomini: un fatto storico e non metafisico, un folle e aberrante sogno di liberazione da quella stessa inquietudine moderna che sostanzia in modo problematico i libri del grande scrittore norvegese.

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