Diciamolo, senza timidezze e senza inibizioni: Martin Heidegger alla fin fine era poco più che un buon traduttore. Il piccoletto irriverente che per primo buttava la pietra contro il gigante, che sgranava i suoi occhioni - e apriva quelli di tutti gli altri - sulla nudità di sua maestà, non era tipo da farsi intimidire dallaura, fosse pure quella di una corona, fosse pure la corona del Reich - il terzo - che si sarebbe posata sulla testa del filosofo nominato rettore dellUniversità di Friburgo nel 1933.
Il piccolino, assistito dallOmino Gobbo (spiritello dispettoso che lo accompagnava dai tempi dellInfanzia Berlinese) era lebreo Walter Benjamin, che in una lettera allebreo Gershom Scholem lasciava cadere come una sassata losservazione: «È incredibile che uno possa ottenere labilitazione con un lavoro simile, per la cui redazione non ci vuole nientaltro che gran diligenza e dominio del latino medievale, e che fondamentalmente, nonostante tutto il suo apparato filosofico, è solo il prodotto di un buon lavoro da traduttore». Profetico Benjamin. Era solo il 1920, infatti, quando scriveva allamico della tesi su La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto con cui Heidegger ottenne la libera docenza. Il pensatore era ancora alle prime armi, imbracciate per intraprendere una carriera che lo avrebbe condotto allaffermazione accademica suggellata dalla famigerata Autoaffermazione delluniversità tedesca e dalla nefanda incoronazione, durata in verità solo due semestri.
Soprattutto il giovane Heidegger muoveva allora i primi passi di quel cammino di pensiero che, lunghissimo invece, ancorché tortuoso e accidentato, disseminato di strategiche interruzioni e movimentato da arditi tornanti, si sarebbe svolto fino alla fine allinsegna di «gran diligenza», onesta dedizione, paziente attenzione da traduttore. La Fisica e la Metafisica di Aristotele, i dialoghi di Platone, il poema di Parmenide e i frammenti di Eraclito, il detto enigmatico di Anassimandro e le lettere evangeliche di San Paolo. Alla lingua dellUrbe e dellOrbe sarebbe tornato per misurarsi con le Confessioni di Agostino, i Sermoni di Bernardo. Ma perfino la lingua dellultimo impero di mire mondiali, il materno (e patrio) tedesco, gli parve bisognosa di traduzione: si doveva estrarne le radici arcaiche, ritrovarne gli etimi classici, gli echi di sanscrito, tastare i limiti impliciti della critica di Kant, scrostare i residui metafisici dai postumi di Nietzsche, parafrasare Rilke, perifrasare Trakl, sciogliere le rivelazioni degli Inni di Hölderlin per tradurne in pensiero la poesia.
Profetico Benjamin. E, pronunciata - seppur con malizia - da lui che non era tipo da minimizzare Il compito del traduttore (si veda il suo Angelus Novus), la profezia sembrava e fu beneaugurante. Un buon viatico per chi si accingeva a mettere in piedi «tutto quellapparato filosofico» smontando da cima a fondo ledificio della metafisica dOccidente attraverso un confronto stringente con i filosofi e i poeti della tradizione: corpo a corpo, mot à mot, le mani nude, vuote daltre armi che non fossero quelle di scavo del traduttore.
Così, les mains vides, e con «limbarazzo» dellimperatore che si veda spogliato fin degli indumenti di base, si affacciava dal frontespizio del suo capolavoro, Essere e tempo: «Perché è chiaro che voi avete una lunga familiarità con quello che propriamente intendete quando usate lespressione essente, ma noi, una volta abbiamo sì creduto di saperlo, ora però siamo caduti nellimbarazzo». In poche righe la frase sulla prima pagina rende le proporzioni di unopera fondamentale: nientemeno che dellessere si tratta. Radicale: del suo fondo oscuro si fa questione. Rivoluzionaria: di una lunga tradizione si fa il punto, quella «familiare» alloccidente. La frase è del Fedro di Platone, citata in greco, riscritta in tedesco e volta in italiano da Alfredo Marini, autore dellultima, eccellente traduzione di Essere e tempo sontuosamente pubblicata da Mondadori nei «Meridiani» (pagg. 1552, euro 55).
Riecco Essere e tempo, dunque. Nessuna scoperta e nessuna novità. Né Marini, con il suo testo - frutto di una ricerca ultradecennale - è lultimo arrivato nella serie di coloro che si sono cimentati con lopus magnum del 27. Il primo ad affrontarlo, eroico pioniere degli studi heideggeriani in Italia, fu Pietro Chiodi, che ne licenziò una prima versione per i Fratelli Bocca nel 1953, la rivide in toto per Utet nel 1969, la ritoccò per Longanesi poco prima di morire nel 1970. Lo stesso Marini mise mano a quel testo aggiornandone la bibliografia nel 76, e lanno scorso Franco Volpi ne ha ristrutturato tutto limpianto restituendolo al suo impagabile splendore di documento storico. Sono tre dunque le versioni di Essere e tempo che girano in Italia: riprova dellencomiabile impegno di ricerca del nostro Paese. Prima di noi, solo i giapponesi (che lo tradussero nel 1939) e gli spagnoli (nel 51). I francesi ci arrivarono solo negli anni Ottanta, dopo lacunosi e parziali precedenti: condizionati da unesigua selezione di paragrafi, inficiati da una tendenziosa lettura esistenzialista. Being and Time uscì in Gran Bretagna alla fine degli anni Sessanta, in America clandestinamente alla fine dei Settanta e ufficialmente alla fine dei Novanta.
Di fronte a sì lunga tradizion di traduzioni non ha alcun senso chiedersi se la versione più bella sia la più nuova. Ma di unopera che del senso dellessere fa questione - o pone la domanda, o affronta il problema: sono i tre significati di Seinsfrage e non guasta averli presenti tutti e tre - declinandone pensieri e parole in relazione al tempo, ritrovando e reinventando il linguaggio tràdito, tramandato e tradotto dellontologia, loperazione più coerente, urgente, ubbidiente se si vuole, da compiere è proprio la traduzione. Che non sarà mai la definitiva, perché lessere che accade nel tempo e in parole non si dice in una parola né una volta per tutte. È il movimento stesso del testo che lo richiede - «limpulso incessante», lo dice Marini -: Essere e Tempo, ovvero discorso e temporalità, linguaggio e storia, ontologia e ermeneutica, lesistenza e le sue interpretazioni che si avvicendano al ritmo della storia e nella varietà delle lingue storiche. È la tensione stessa della sua scrittura che lo impone: tensione centripeta, che punta non al rinnovamento ma al ripristino, che trascina verso il basso le radici, il passato, lorigine e fatalmente cattura chi capiti nel suo campo gravitazionale.
Di qui la tendenza dogni traduttore ad aderire alla parola heideggeriana: a mimarla - con effetti stranianti e grotteschi sui profani - in un tripudio di neologismi, parole frante, parole composte, verbi o giri di parole sostantivati (essere-nel-mondo, essere-per-la-morte, essere-via, il Si, lA-che, il Come e il Che cosa...). Ma lestraniazione è premeditata. Heidegger non vedeva nel linguaggio un rassicurante mezzo di trasporto o di comunicazione, e la traduzione era per lui ciò che per Nietzsche era la filologia: il gesto di scoperta filosofica più rischioso. Ecco perché, denunciando il linguaggio come «il più pericoloso dei beni», ripeteva di voler «fare sul serio» con le parole - parole tedesche, con un lascito e un destino (o «mandato» traduce Marini) fatali -, e pretendeva di essere preso «in parola».
Vero che, con mossa disincantata e critica ci si può emancipare dal suo discorso, denunciarlo come una sottile, tenacissima costruzione linguistica: una grandiosa mistificazione di portata storica e potenza teoretica impressionanti. Marini, da traduttore, non può: devessere fedele a Heidegger e obbedirgli. Lo fa tenendosi in mirabile equilibrio sulla lettera delloriginale, sorretto dallavveduta coscienza critica di cui ci mette a parte nel lungo saggio in appendice al volume (Tradurre «Sein und Zeit»). Fin dallinizio però misura bene le sue distanze.
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