da Washington
Fra il sudoku elettorale e la politica planetaria, la campagna elettorale americana comincia a orientarsi e a indirizzarsi verso la priorità giusta e inevitabile: mentre gli elettori dell'Oregon e del Kentucky (dove gli exit poll nella notte davano la Clinton in vantaggio ma non abbastanza per recuperare il margine di delegati su Obama) si avviavano alle urne e le centrali organizzative e propagandistiche dei due rivali democratici riaccendevano l'eterna zuffa sui numeri, Barack Obama ha confermato la sua scelta, in realtà in gran parte imposta, di ignorare le risse con Hillary e di concentrarsi ormai esclusivamente sulla vera e lunga battaglia, quella che lo vedrà affrontarsi, da qui al 4 novembre, con John McCain. E che si è già imperniata su un tema inevitabile: la politica estera. Inevitabile perché il momento storico è quello che è, con l'America impegnata in due guerre (senza contare quella contro il terrorismo) e rischia di scivolare in una terza. LIran, dopo l'Afghanistan e l'Irak.
Non solo per questo il tema della grande politica internazionale è destinato da anni a diventare essenziale nella scelta degli elettori americani. La lenta e continua caduta della popolarità di Bush è infatti dovuta alle delusioni e alle polemiche sulla conduzione di questi conflitti e non, almeno fino a pochi mesi fa, sulla situazione economica che, prima dello scoppio della «bolla» del credito edilizio, era in condizioni buone o eccellenti. Adesso certo, il disagio si fa sentire nelle tasche degli americani, ma l'impopolarità di Bush ha ampiamente preceduto questo fenomeno e il dibattito fuori e dentro il Congresso è da anni centrato sulle questioni internazionali. E i due candidati emersi finora per il testa a testa di novembre, John McCain e Barack Obama, scaturiscono entrambi dalla contrapposizione su tali temi.
La polarizzazione è stata rallentata o rinviata per qualche mese in conseguenza dell'indirizzo dato alla campagna elettorale di Hillary Clinton, tutta centrata sulle promesse e sui programmi che nel gergo politico americano vengono chiamati «pane e burro»: assistenza medica, pensioni, aiuti ai tanti che hanno perso la casa, diminuzione dei deficit, federale e degli scambi. La Clinton è riuscita a profilarsi in questo senso, raccogliendo così nelle primarie il voto degli strati economicamente e culturalmente più bassi e risparmiandosi il più possibile di prendere una posizione netta su pace, guerra, terrorismo e problemi collegati.
Ma ora che il suo sforzo appare numericamente condannato, Obama non può permettersi di tergiversare. Anche perché McCain ha dato inizio da diversi giorni a un robusto barrage contro l'ormai identificato rivale democratico, cercando di «stanare» Obama e farlo inciampare in qualche promessa o commento imbarazzanti per un uomo politico che la propaganda più o meno sotterranea dei repubblicani cerca di presentare come «insufficientemente patriottico». Da un paio di giorni Obama risponde al fuoco e proprio sui teatri mediorientali il duello ha toccato ieri il massimo di scontro fra due intransigenze. McCain è contrario a ogni ritiro delle forze Usa dall'Irak e propenso a estendere, se necessario, le ostilità all'Iran, che rappresenterebbe una «minaccia immediata per la sicurezza degli Stati Uniti». Obama respinge fermamente il paragone con la Guerra fredda, nega che qualsiasi Stato del Medio Oriente (inclusi l'Iran e la Siria) possa costituire un rischio anche solo lontanamente paragonabile a quello incarnato dall'Unione Sovietica in mezzo secolo di Guerra fredda.
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