"Ho avuto tanti padri e il primo è stato un prete"

"A 14 anni venivo bullizzato, lui mi aiutò", racconta uno dei fondatori della storica Pfm. "Mi piace insegnare, imparo a conoscere me stesso"

"Ho avuto tanti padri e il primo è stato un prete"

Quante vite ha vissuto Franco Mussida. 71 anni, milanese, una fucina di sogni e idee, dalla Pfm che ha co-fondato a CO2, la musica nelle carceri, fino al neonato «Slow Music», vivere l'arte dei suoni con qualità e lentezza. Poi l'uomo, il suo privato, tante storie. C'era una volta l'infanzia: «Ho iniziato a suonare la chitarra da solo, avevo sette anni e cercavo di aggiustare gli accordi che mio padre Edoardo maldestramente suonava - attacca - Lui faceva il postale. Uno dei miei primi ricordi è che osservavo il buco che c'è al centro dello strumento e mi chiedevo cosa fosse, a che cosa servisse. Tutto è iniziato da un buco nero poi ho scoperto un universo».

Da ragazzo si è dato subito all'arte o ha studiato per altro?

«Sì, da perito industriale, mi piaceva la tecnologia, in un test è risultato che sarei stato un bravo operaio, ma a 14 anni ci fu la prima tournée europea. Alla Feltrinelli di Milano restai solo quattro mesi, poi comunicai ai miei che me ne sarei andato, la mia passione era la musica».

A un certo punto le avranno detto «ma vai a lavorare...» o no?

«A 16-17 anni lavoravo alla Siemens Elettra come disegnatore tecnico. Suonavo la sera e contribuivo all'economia familiare di giorno. Ci ho fatto un paio di anni, poi arrivò la congiuntura, era il 1964, venne ridotto il personale. Ricordi? L'impressione ossessionante del continuo battere a macchina delle segretarie».

Le è toccato fare il militare?

«L'ho fatto su una nave, due anni di vacanza meravigliosi. Al massimo avevo visto i mosconi di Bellaria. Il mio incarico era formare e suonare nelle orchestre in giro per il mondo sulla San Giorgio, un cacciatorpediniere da 150 metri».

Da una nave dove è approdato?

«Alla Pfm, una grande avventura durata 45 anni. Il nome della band nasce da un acronimo di Forneria Marconi arrivato da una precedente formazione di Mauro Pagani. Premiata venne suggerito dal direttore Colombini».

Come sono stati gli anni giovanili, l'amore...

«Ho incontrato mia moglie Loredana nel 1967 era la festa del suo ventesimo compleanno. Lì scoprii De André, con cui ho suonato tre anni dopo nella Buona Novella. Lei era irresistibile, portava i capelli a spazzola. Ma quel che mi colpì furono i suoi occhi in cui intravvedevo una sorta di dolorosa malinconia. Alla festa dei nostri 70 anni le ho dedicato un pezzo scritto apposta per dirle perché mi sono innamorato».

All'inizio è stata dura?

«Quando sono nati i miei figli avevo 27 anni, è iniziato un periodo molto pesante, anche se sono successe cose meravigliose. Per esempio la percezione del mondo dei suoni come un pianeta. Un dono che mi ha cambiato la vita».

E in questo pianeta c'è stato anche De André.

«Persona straordinaria, traduceva a braccio le sue canzoni prendendosi in giro. La canzone di Marinella ogni volta era diversa. Era una persona sicura, piena, di grande cultura. Ma quando saliva sul palco portava il suo quaderno coi testi scritti e diceva belìn non si sa mai».

Impressioni di Battisti...

«Un uomo che si meravigliava di fare il mestiere che faceva ma non amava lo show business. Traduceva istintivamente in felicità, in musica, le emozioni della vita».

La vita di gruppo che cosa le ha lasciato?

«La Pfm è una delle più belle storie di amicizia artistica mai vissute. Essere gruppo significava consentire a ognuno di essere ciò che può essere, protetto dagli altri».

Poi ci fu il teatro.

«Tutto è cominciato con una telefonata di Elena Di Cioccio. Mi mise in contatto con Alessandro D'Alatri. Aveva bisogno delle musiche di Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman. Le voleva originali ed eseguite da una chitarra. Era il 2011, fu il primo spettacolo andato in scena al Teatro dell'Aquila dopo il terremoto. Poi l'esperienza con Gabriele Lavia e la sua versione dei Masnadieri».

Mai un momento libero...

«A volte ho bisogno di staccare, ma per periodi brevi. In auto sento trasmissioni sportive; tifo per il Milan, oggi sono rossonero perché in famiglia erano interisti. A casa mi concedo dei momenti alla playstation, solo Formula Uno. Lo faccio quando devo lavorare fino a tardi, ho bisogno di adrenalina per restare sveglio. Poi mi piace la barca vela, ma non riesco a dedicarci tempo».

E' vero che ogni tanto si svaga ai fornelli?

«Specialità risotti, soprattutto alla milanese. Nella Pfm, periodo americano, cucinavo sempre io, poi mi sono stufato. In famiglia facciamo attenzione all'alimentazione e ai cibi. Mia moglie ha fondato l'Associazione per l'Agricoltura Biodinamica in Lombardia. Avevamo una cooperativa di distribuzione, una delle prime in questo settore».

La leggenda vuole che avrebbe fatto pure il camionista: è vero?

«Solo per verificare i tempi di consegna di chi lo faceva davvero. Portavo la verdura, la gente mi riconosceva e si meravigliava. Quando arrivavo con le cassette mi guardavano e mi dicevano scusi lei non è... fuggivo dicendo si, sono io ma mi firmi la bolla che devo scappare, telefoni a mia moglie e si faccia spiegare da lei».

Lei è famoso anche per aver fondato il Cpm a Milano...

«Il Centro Professione Musica nasce a Milano nel 1984 da un incontro importante con l'imprenditore Giannino D'Antonio e Patrizia Petroni. Le scuole di musica erano nei sottoscala dei negozi di strumenti. Oggi è una Scuola d'eccellenza, conosciuta in tutt'Italia, una casa dei mestieri del suono. Un'avventura con tante tappe che si è evoluta fino al riconoscimento del Miur e dei diplomi di primo livello per i dipartimenti di strumento e canto. Il Cpm è una comunity compatta in cui gli studenti interagiscono in una struttura di 2.500 metri quadrati».

Insegnare le piace?

«Sì, specie sperimentare una didattica legata al lato affettivo della persona. Osservare le difficoltà nell'affrontare il mondo della musica e offrire soluzioni individuali mai uguali. Il confronto con lo studente è una splendida occasione per conoscersi, accettare ogni volta la bellezza di una relazione umana e artistica. Per un docente non significa solo trasferire le proprie conoscenze, ma modificare continuamente il proprio linguaggio per farsi capire dagli altri, ognuno è unico».

Risulta che lei abbia tenuto incontri sul tema dell'anima.

«Non ho messo io questo titolo agli incontri. L'Anima la definisco struttura affettiva. Anima è una parola sacra, ora abusata, detta con tale leggerezza da farle perdere di significato. Per come la intendo è la patria dell'interiorità. Quello che gli psicologi definiscono inconscio e che mi piace chiamare pianeta degli affetti».

Che rapporto ha con la religione?

«Sono cristiano senza una confessione precisa, ma sono battezzato e non ho mai abiurato. In che cosa credo? Cristo indica una strada etica che vede incarnato nell'uomo l'idea stessa del creato e di Dio. Siamo in perenne collegamento con tutto ciò che esiste. Tutto questo lo si può chiamare Dio, o in altri modi. Da un punto di vista panteistico lo si può immaginare come il prodotto di tante diverse energie presenti anche in natura. Tutto ciò che esiste vive già in noi; lo possiamo percepire perché lo riconosciamo».

Come ha tradotto questa sua filosofia?

«Nel 1988 mi fu chiesto di portare all'interno del carcere di San Vittore un'esperienza artistico-musicale perché il raggio dei tossicodipendenti era abbandonato a se stesso, nel senso che nessuno dei detenuti faceva più richieste di colloqui agli psicologi».

Incontri che le hanno aperto le strade...

«Prima un'amicizia con il dottor Luigi Pagano, che allora era il direttore del carcere di San Vittore, che ha coinciso con un primo periodo di sperimentazione. Utilizzavo la musica per far fare ai detenuti esperienze di coro e di musica d'insieme. Un lavoro settimanale che non ho mai voluto fosse ripreso da telecamere o macchine fotografiche. Poi la sinfonia per 1000 chitarre e l'amicizia con Don Mazzi, un guerriero moderno che si batte per la vita sempre e comunque. Tutto è poi ripreso nel 2013 con il progetto CO2, su sollecitazione di Gino Paoli e la Siae che lo ha seguito e lo segue fin dall'inizio ».

Quali sono stati i risultati del progetto «CO2», la musica nelle carceri?

«L'Italia è l'unico paese in Europa dotato di una rete di audioteche suddivise per stati d'animo prevalenti in 12 istituti. Attraverso la musica si può andare oltre a tristezze e nostalgie, tenere a freno la rabbia. Gli stati d'animo sono 27 divisi in nove grandi famiglie. Il percorso parte dal riconoscere un sentimento che si vuole vivere. Lo si richiede all'audioteca, circa 2.000 brani ciascuno legato ad un preciso sentimento. Si ascolta finché si trova quello che può dare appagamento e lo si memorizza se lo si vuole ascoltare. Qualcosa di facile e diretto, pensato per i comuni ascoltatori che ridà fiato al mondo emotivo schiacciato e abbrutito dalla detenzione. Un attimo d'aria che dà sollievo, consolazione, speranza e un po' di serenità».

Una storia dietro le sbarre che ha voglia di raccontare...

«Penso a un detenuto di Secondigliano che dopo due anni di uso dell'audioteca ha coniato una frase che abbiamo tenuto come esempio: Grazie a CO2 ho vinto la carcerazione interiore. La musica gli ha restituito la possibilità di avere un rapporto affettivo col mondo. Si era chiuso nel mutismo e non parlava più, neppure coi magistrati».

Quali cose le rimangono da fare?

«Parecchie, ora c'è Slow Music, sono tra i fondatori, presidente e ideatore Claudio Trotta, nel comitato etico Carlo Petrini, Stefano Mancuso e Luigi Pagano. Si vuole consentire alla musica di aprirsi un percorso come quello fatto da Slow Food con il cibo. Creare una comunità che prescinda dal mercato per orientare verso la qualità e un'etica diversa. Evitare i condizionamenti del mercato globale fare in modo che dal basso nasca l'esigenza di una lentezza necessaria».

Dai viaggi dell'anima ai viaggi sulla terra...

«Uno dei viaggi che mi porto dietro è quello in India che ho fatto a 65 anni. Siamo andati con il Cpm a cercare la radici del Tala e del Raga, ovvero del ritmo e della melodia. L'India mi è sembrato un Paese in subbuglio che sta cercando una nuova strada».

Solo esplorazioni musicali e geografiche o c'è altro?

«No, anche l'arte. È stata una sorpresa anche per me. Nel 2012 ho seguito una visione: rappresentare visivamente la sacralità nascosta dell'elemento indivisibile della musica. Il rapporto tra gli intervalli musicali e la struttura affettiva delle persone».

Con tutte queste esperienze che cosa ha capito della vita?

«Che la parola utopia non esiste ma esistono visioni e sogni che devono essere realizzati. A un giovane direi che la vita è un avventura meravigliosa. Negli anni vedi le stesse cose da punti di vista sempre diversi, per poi arrivare a comprendere che il vero traguardo è diventare dei bambini consapevoli di essere adulti».

Concludiamo con personaggi che sono stati memorabili...

«Nella vita oltre a quello biologico ho avuto tanti padri, compagni di vita, incontri determinanti. Il mio primo è stato don Gianfranco un prete che a 14 anni mi difese da un adulto di 18 che non mi faceva giocare a pallone, un atto di bullismo. L'incontro con Franz Di Cioccio, poi Flavio Premoli, Mauro Pagani, Fico, Patrick Djvas e gli amici succeduti nella Pfm.

Basta così oppure vuole fare altri nomi ancora?

«Il nostro produttore, Claudio Fabi. Poi la filosofia, Rudolf Steiner. Giannino D'Antonio. Nella politica mi sento un Radicale, più vicino a Emma Bonino. Ma non ne ho citati tanti altri fondamentali, uno per tutti Giovanni La Croce, che ci ha permesso di rifondare il Cpm».

E i figli?

«Che posso dire? Si chiamano Sandro e Francesco, ci hanno cambiato la vita, ora da persone libere si costruiscono la propria. Gli devo molto, li adoro!».

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