
Ero venuto qui per dare un'occhiata ai costumi, per descriverli e senza la pretesa di capirli, ma adesso mi accorgo che è più appassionante studiare gli occidentali in Cina che non i cinesi in casa loro. Insomma, i cinesi fanno i cinesi e sono esattamente come uno se li immagina: tutti uguali, con due belle mandorle tra gli zigomi e la fronte, la vocetta infantile, invece della «erre» pronunciano la «elle», vanno in bicicletta e mangiano il riso. Interessante, d'accordo. Ma vuoi mettere il turista, specialmente italiano? Egli, non appena è sbarcato, normalmente assume un'aria schifata, dà una gomitata all'amico e gli sussurra: «Che squallore».
In effetti, i marmi alle pareti e i pavimenti non sono tirati a lucido, ma opachi e trasandati: proprio come quelli della stazione Termini di Roma e della Centrale di Milano. Ma il nostro sporco è tale quale la famosa trave invisibile; e quello degli altri è tale quale la famosa pagliuzza, evidentissimo. Sarà per la stanchezza del viaggio (sedici ore di volo da Zurigo: ed è il motivo principale, suppongo, per il quale la Cina non sarà mai vicina, ed è meglio così) il visitatore non si rende conto che a terra non c'è mozzicone né cartaccia, ciò che conferisce all'aeroporto un aspetto più elvetico che palermitano; ma entrando nel taxi avverte uno strano odore: aglio, soia? Probabilmente odore di entrambe le cose. Non dico che sia una delizia, ma ricordate gli afrori nel metrò milanese - orario di punta - sulla «tratta» Cassina de' Pecchi-Loreto? Dovendo scegliere, sarei imbarazzato.
Ma queste son sciocchezze. Il bello viene dopo. Per esempio in albergo. È noto che da queste parti è vietato dare e ricevere mance, secondo i precetti di Mao. Ma è pure noto che i quattrini se fanno vacillare chi ne ha tanti, figuriamoci chi non ne ha affatto. Succede in tutto il mondo. Ebbene, non esiste connazionale che non si ponga come obiettivo di rifilare un bigliettone a facchini e camerieri, per il piacere, poi, di affermare: «Ragazzi, in tre minuti ho distrutto un regime».
Modestamente, noi italiani abbiamo ideato numerose tecniche per stroncare la resistenza dei cinesi all'obolo, la più complicata delle quali è infallibile. Questa. Poiché il trasportatore di valigie non accetta d'acchito banconote, occorre che, simulando indifferenza, tu ne faccia cadere due. L'uomo si chinerà a raccoglierle e vorrà consegnartele, allora gli dirai che se le tenga, perché non sono tue e ne ignori la provenienza. Qualora insista per restituirle, basterà che gli si dia a intendere che, nel dubbio sulla proprietà di quei denari, conviene spartirseli: una moneta ciascuno. Questo la prima volta, le successive, afferrato il concetto, piglierà tutto quello che gli offrirai, risparmiandoti la sceneggiata. E così ti vanterai d'aver fregato il Grande Timoniere, che è sempre una discreta soddisfazione.
Che fa l'Occidentale a Pechino, dopo aver felicemente sperimentato l'introducibilità del principio della tangente nel tessuto sociale? All'inizio si annoia a morte, perché non osa generalmente avventurarsi da solo in città, che è una giungla in cui è impossibile non perdersi e impossibilissimo ritrovarsi, giacché è raro incontrare chi parli inglese e sia in grado di indicare allo straniero lo smarrito ostello. Poi, acquisito un pizzico di coraggio, comincia a gironzolare nei pressi dell'hotel e scopre due dettagli agghiaccianti: primo, che a Pechino non si vede in giro un cane pechinese neanche a cercarlo col binocolo; secondo, che non c'è in giro un cane purchessia, neppure un bastardo di taglia modesta. Il che induce a pensare che non sia una barzelletta che in Cina quadrupedi e bipedi (esclusi i parenti) finiscono in padella prima che siano adulti e abilitati a circolare in zone urbane. Difatti, a ben guardare, tanto nella capitale, quanto nei sobborghi non v'è traccia nemmeno di gatto; circostanza, questa, che dovrebbe incoraggiare i topi se non a ballare, quantomeno a manifestarsi, e invece anche i sorci sono misteriosamente assenti. Sicché è legittimo il sospetto che i ratti siano in loco considerati una leccornia e cacciati a scopo alimentare dai cittadini, i quali, ritenendo giustamente i felini dei concorrenti, li hanno banditi dalle case. Anzi, utilizzati per imbandire la tavola.
A conforto dell'ipotesi, c'è la testimonianza del direttore dell'Amalia di Shanghai, dottor Catalano, squisito gentiluomo e degno di fede, il quale sostiene che l'ultimo micio, in questa regione, fu avvistato nel lontano marzo 1987. E non si trattava di micio giallo, ma di importazione europea.
L'arrivo dell'animale provocò addirittura dei disordini, forse perché inaspettato. Gli scaricatori dell'aeroporto, nel vuotare un jet proveniente da Roma, si imbatterono in una gabbia contenente un esemplare di soriano eccezionale per la sua mole. Apriti cielo. Anziché allineare l'insolito collo con gli altri bagagli e quindi portarlo al proprietario che ne era in attesa, le maestranze cinesi, affascinate dalla bestia, e già con l'acquolina in bocca, aprirono il contenitore per ammirarla con più agio e, forse, non resistendo alla tentazione di carezzarne le teneri carni candidate alla graticola.
Il gatto, non avvezzo a quel genere di attenzioni, si spaventò e con un balzo schizzò via, sotto gli occhi stralunati dei pretendenti. Che, superato l'iniziale stupore per l'inopinata sortita del felino, si gettarono all'inseguimento del medesimo: tra le ruote del velivolo, tra le valigie, lungo il nastro d'asfalto, nei prati circostanti. Una partita elettrizzante cui, richiamati dai gridi e dagli strepiti dei contendenti, parteciparono al fine tutti i dipendenti dello scalo, dando vita a scene indimenticabili: il soriano che zigzagava qua e là e, dietro, una folla di cinesi imbufaliti e urlanti che tentavano di acchiapparlo.
Vinse l'animale, nel senso che grazie alla propria formidabile corporatura riuscì a divincolarsi dal pacchetto di mischia nel quale era stato incastrato, e a dileguarsi nella campagna. Ma ammesso che non sia morto di paura, è tuttora latitante: sue orme da allora non furon più trovate.
Alla inquietante cucina locale però il turista si rassegna presto e, talvolta, di essa si innamora al punto che, prima di rimpatriare, provvede a comperare le bacchette (sostitutive delle posate) nella falsa convinzione che continuerà ad adoperarle a Milano o a Torino, magari per mangiare il minestrone.
Quello a cui proprio non s'abitua è la mancanza totale di divertimenti a carattere mondano, che non siano gli stucchevoli ricevimenti organizzati dalle ambasciate e dalle banche europee. Talché, trascorsi due giorni nella metropoli ex imperiale esplorando i dintorni dell'albergo, ispezionando in comitiva la «Città proibita» il mausoleo di Mao, il tempio azzurro e sbirciando nei vetusti quartieri di grigie casupole che sono identici ai bassi napoletani, anzi preferibili, perché qui almeno non rischi il Rolex, l'escursionista tipico, esauritisi gli stimoli pseudoculturali esercitati su di lui dalle scarse attrattive esotiche, ammazza il tedio nell'unico modo che conosce, lo shopping.
Sono soprattutto le donne a dedicarvisi con irriducibile entusiasmo, ma anche gli uomini, da esse trascinati, presto o tardi cedono alla smania dell'acquisto quale antidoto contro la noia. Che cosa acquistano in questo Paese dove non c'è molto da acquistare? Tutto ciò che capita e che gli indigeni mettono loro a disposizione, affinché sfoghino a pagamento la rabbia per essere in una terra che non comprendono.
Gli oggetti più ambiti dalle signore, sono i preziosi che costano poco perché non sono affatto preziosi, ma che diventano preziosissimi poiché di regola, ciascuna dama (date le tariffe invitanti) se ne accaparra in tali quantità da valere milioni. La spesa si rivelerà folle allorché colei che l'ha sostenuta, tornando in Italia (e in sé) constaterà che la mercanzia è destinata per la sua pacchianeria al fondo di un cassetto, se non di una pattumiera.
Anche i generi di abbigliamento seducono assai (come il finto antiquariato). Sulle scarpe di pezza con suola di panno, che i cinesi non si degnano di calzare avendo superato la soglia del minimo benessere, ho veduto nugoli di lady avventarsi bramose di possederle. Prezzo, tremila lire, cioè adeguato alle qualità (pure estetiche) di quelle che è generoso definire pantofole; ma ebbre per la certezza di concludere un eccellente affare, le gentili acquirenti ne abbrancano quante più paia riescono e tornano esultanti nell'hotel per mostrarle alle amiche.
Con le quali poi si riprecipitano alle bancarelle, rovistano nella merce, frugano tra magliette e sottane da quattro soldi, voltano e rivoltano straccetti, saccheggiano, comprano: «Perché è roba che vien via a niente».
Dopo una settimana di estenuanti raid nei mercatini (e nei magazzini per soli forestieri) le famiglie occidentali sono completamente ubriache di cenci e di paccottiglia, e se ne infischiano della dinastia dei Ming, delle tombe dei monarchi, di Xian e della Muraglia, peraltro più apprezzabile negli spot televisivi della Citroën che non a camminarci sopra, dato che è fasulla (ricostruita) e affollata come Sotto il Monte nell'anniversario della morte di Papa Giovanni.
La vacanza è finita. E i reduci avranno facoltà di dire: «Io laggiù ci sono stato». Un viaggio inutile? No. È servito almeno a chiarire una vecchia storia. Quella che propone il seguente interrogativo: per un miliardo, tu italiano pigeresti un bottone sapendo di provocare laggiù in Cina la morte di un mandarino? Un test che da sempre suscita serrati dibattiti di tipo etico, al termine dei quali si opta, sia pure con qualche rimorso al pensiero della povera vittima, per la riscossione del miliardo. Questo, in Italia.
Qui, a oltre diecimila chilometri dalla madre patria, se un pechinese ti domandasse: pigeresti quel bottone qualora a rimanere secco, invece del mandarino, fosse un onorevole laggiù nel tuo Paese?, risponderesti senza indugio, sì. Anche gratis. Scherzi cinesi o della distanza.
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