Scomparso lo scorso giugno poco prima di staccare il tagliando dei cent'anni, Raffaele La Capria ha avuto un percorso singolare: dopo aver pubblicato Ferito a morte, il romanzo vincitore del Premio Strega nel 1961, ha imboccato una linea saggistica che ne ha fatto una sorta di Montaigne italiano, senza torre ma con tanti amici, i quali ne hanno accompagnato la vita sterminata, come suggerisce il titolo della scelta di lettere che ora Mondadori manda nelle librerie (Tu, un secolo, pagg. 168, euro 18,50) per ricordarne la parabola non solo letteraria, ma esistenziale. Predisposto dall'autore con largo anticipo, in modo da costituire un insieme di «biglietti» destinati a noi, i posteri, il carteggio genera più di un soprassalto perché vi compaiono le personalità essenziali del Novecento.
Si inizia con una missiva di Moravia a Bompiani in cui l'autore degli Indifferenti sponsorizza quello che allora era solo un giovane narratore di talento («Caro Bompiani, ti scrivo per annunziarti che ho scoperto uno scrittore nuovo...») e si continua con una lettera a Pasolini in cui La Capria stigmatizza il bullismo di alcuni cenacoli, sottolineando la propria autonomia: «Il mio primo romanzo Un giorno d'impazienza è del 1952. Allora l'avanguardia non poteva ricattarmi perché non esisteva. Anche con Ferito a morte l'avanguardia non avrebbe fatto in tempo a ricattarmi. È dell'aprile del '61. L'avanguardia cominciò a ricattare un po' più tardi...». C'è una nota di scuse di Montale, il quale in una recensione gli aveva dato del mediocre - «avrei dovuto usare un'altra parola» - e due straordinarie lettere di Anna Maria Ortese che rimarcano l'umanesimo affabile, mai abrasivo, del destinatario: «Una delle cose che ho sempre ammirato in te è la perfezione formale, anche del vivere»; osservazione che rende più drammatica la successiva confessione, in cui la Ortese dichiara di considerarsi «un errore di Dio», sensazione «che rende infelici per sempre alcune persone». Le lettere di Parise lasciano intravedere una grande amicizia e un periodo felice dello scrittore veneto: «Vado molto a caccia, in valle e altrove, sempre solo. Vado anche a sciare. Stupenda neve vergine a Cortina, solo, solissimo a 3200 metri e giù nella neve. Vedo scoiattoli già bianchi, anche lepri bianche...». Non mancano le lettere imbucate dai critici letterari puri, più o meno incardinati nell'accademia. Bella, per esempio, la pagina in cui Raffaele Manica racconta che sfogliando Letteratura e salti mortali fresca di stampa ha esclamato: «Ma sono le Lezioni americane di La Capria!».
A volte, fra le righe, affiora l'imbarazzo per la mancanza di abissalità dello scrittore napoletano, ma è solo, per usare il gergo dei tribunali, un atto dovuto, imposto dal radicalismo di tanti intellettuali del Novecento, poco compatibile con l'epicureismo di La Capria fatto di centralità dell'amicizia, invidiabile indifferenza alla morte, aderenza a un cielo pagano sgombro di divinità troppo ingombranti.
Universale, invece, è l'ammirazione verso la «leggenda personale» che La Capria ha saputo costruire: l'infanzia napoletana cosmopolita a palazzo Donn'Anna, dalle cui finestre ci si poteva tuffare nel mare («È una cosa colossale, omerica!» gli scrive Sossio Giametta); il tema della «bella giornata», metafora assoluta parente dell'attimo immenso di cui parla Nietszche nella Gaia scienza; naturalmente la famosa scena di pesca subacquea che apre Ferito a morte. Nessun letterato degno di questo nome mette una spigola nel forno senza riandare con il pensiero a quella pagina memorabile.
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