I carri israeliani passano il confine libanese

Gian Micalessin

da Zarit (Nord Galilea)

A Zarit - quattro case e tanti rifugi sull’ultimo picco ricamato a ridosso del confine - sono rimasti una cagna incinta, un gatto morto, un’ambulanza dell’esercito con le porte spalancate. L’equipaggio sembra volatilizzato, scomparso nel nulla. La recinzione di confine è aperta, violata. I cancelli d’acciaio spalancati sul versante libanese sbattono al vento. I sentieri sono tappeti di terriccio e sterpaglia tritati dai cingoli di carri Merkava e blindati. Attorno il solito incrocio di razzi e granate. Gli obici israeliani picchiano la boscaglia a nord. Le katyuscia alzano colonne di fumo nella vallata, martellano le città della Galilea.
Il colonnello Ishay Efroni ha dato appuntamento alla stampa quassù. Poi ci ha ripensato. Un tenente preoccupato ridireziona le auto dei giornalisti. «Ci sono problemi, per ragioni di sicurezza abbiamo spostato tutto più a sud». In un’altra base un soldato è stato colpito da un cecchino, ma qui i problemi sembrano i soliti. Si chiamano katyuscia, esplodono un po’ ovunque, colpiscono Kiryat Shmona, Safed, Naharya, Carmiel e le altre città dell’alta Galilea. Quasi un centinaio di razzi che tra le cinque della sera e il tramonto mandano all’ospedale una decina di persone tornate in strada per la fine dello Shabbat.
Sul versante libanese a quest’ora sarà anche peggio. Dalla caserma di Matzuv il colonnello Efroni annuncia la scadenza entro le 19 dell’ultimatum intimato agli abitanti di dieci villaggi libanesi. «Per combattere i terroristi possiamo mandare dentro le truppe o bombardare dal cielo. La seconda è la soluzione preferibile, ma vogliamo dare il tempo ai civili di fuggire - spiega il vice comandante di brigata -, la nostra guerra non è contro i residenti del Libano, abbiamo anche noi mogli e figli. Per questo chiediamo agli abitanti dei dieci villaggi di andarsene entro stasera».
L’attenzione con cui i comandi israeliani ricordano gli avvertimenti ai civili non è solo la conseguenza delle critiche internazionali, ma anche delle difficoltà incontrate durante l’avanzata verso il villaggio di Marun al-Ras. La conquista di quel pugno di case arroccate su una collina a novecento metri di altezza veniva data ieri dagli israeliani come cosa fatta. Per i vertici di Tsahal «i paracadutisti stanno completando le operazioni di rastrellamento dei bunker e delle fortificazioni utilizzate dai guerriglieri sciiti di Hezbollah». Gli osservatori dell’Unifil confermavano la presenza di tre carri Merkava intorno al villaggio. «Marun al-Ras è la posizione più alta, quando non ci sono nuvole domina metà del Libano, controllarla - spiega il generale israeliano Shaul Kamissa - equivale a esercitare capacità di controllo e di dissuasione su un’area assai importante».
Dall’altra parte i guerriglieri di Hezbollah smentiscono tutto. A dar retta ai loro comunicati i combattenti ancora trincerati nel villaggio hanno colpito in serata uno dei tre tank e continuano a dar filo da torcere ai soldati israeliani. Sia come sia, neppure arrivare a Marun al-Ras, infiltrandosi tra la popolazione civile, è stata una passeggiata. E non solo per i sei incursori uccisi e la decina di feriti delle prime ore di battaglia. «Quando non puoi distinguere un’abitazione civile da una casa trasformata in una fortezza, collegata attraverso camminamenti e cantine ad altre postazioni simili - spiegano gli ufficiali del colonnello Efroni - combattere diventa molto complesso, il nostro esercito non può permettersi il lusso di una strage di civili, non può utilizzare tutti gli armamenti a disposizione, combatte con un braccio legato dietro la schiena».
L’ultimatum ai dieci villaggi è il segnale della nuova offensiva. Un assalto destinato a cancellare le sacche intorno al confine, dove continuano a operare numerose postazioni missilistiche, e a preparare gli avamposti per l’avanzata fino al fiume Litani. «Non è un’invasione, né tantomeno un’occupazione - ricorda il colonnello ripetendo le indicazioni del capo di stato maggiore Dan Halutz -, sono serie di operazioni destinate a ripulire da armamenti e missili le aree del sud del Libano». A dar retta al colonnello ognuna di quelle operazioni sarà seguita dall’immediato rientro delle truppe. Almeno ufficialmente insomma niente invasione e niente occupazione.
Molti in questi giorni ricordano l’invasione del 1982 definita «operazione limitata» fino a quando l’allora ministro della Difesa Ariel Sharon non arrivò a Beirut. Stavolta però obbiettivi e intenzioni sembra veramente diversi. Né i vertici di Tsahal, né il governo di Ehud Olmert desiderano sprofondare in una nuova palude libanese. Conseguire in settimane o mesi quella neutralizzazione di Hezbollah, inutilmente perseguita dalla fine degli anni ’80 fino al ritiro del 2000, non è però facile. I comandi militari starebbero studiando una strategia del domino giocata su quattro quadranti per evitare la permanenza prolungata delle truppe e realizzare uno scenario flessibile. Lo scenario, diverso da un’occupazione tradizionale, sarebbe assai simile a quelli dispiegati a Gaza e in Cisgiordania negli ultimi anni. Il primo obbiettivo obbligato è la creazione di una fascia di sicurezza lungo il confine seguita dall’avanzata verso il fiume Litani.

Una volta consolidate queste postazioni, scatteranno le operazioni nella zona centrale di Nabatya, quelle all’imbocco della valle della Bekaa a sud del lago Qaraun e infine le incursioni nelle aree densamente popolate intorno a Sidone. Ma con quel piano in mente i generali, secondo le più ottimistiche previsioni, non finiranno di lavorare prima del prossimo autunno.

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