I cattivi ricordi del cattivo maestro

Errori e negligenze all’ordine del giorno nelle aule di tribunale Ma le sanzioni per trasgressori e fannulloni sono deboli

Coinvolto, per evidenti analogie giudiziarie, nella polemica riguardante la grazia a Bruno Contrada, Adriano Sofri ha reagito sul Foglio con toni violenti che non gli sono consueti. Ha scritto che «il mio nome è un piccolo irresistibile tic del paese di Maramaldo»: volendo con ciò intendere che i vili della Penisola profittano d’ogni occasione per attaccarlo.
Sono d’accordo, Maramaldo è di casa in Italia. La sua evocazione calza a pennello per Enrico Deaglio che, discutendosi la possibile scarcerazione del vecchio e malato Contrada - uscito sconfitto da un altalenante percorso processuale - ha sostenuto d’essere «assolutamente contrario» a ogni provvedimento di clemenza. Troppo odioso il reato a Contrada addebitato. A questo punto il giornalista del Corriere che intervistava Deaglio ha introdotto nel discorso il «caso» Sofri, chiedendo se l’uccisione di Calabresi non fosse stata altrettanto odiosa. Risposta: «Intanto è un fatto accaduto 35 anni fa ed è odioso tanto quanto l’omicidio dell’anarchico Pinelli».
Dunque il tic maramaldesco ha caratterizzato, nella specifica circostanza, chi ritiene che Contrada debba a ogni costo restare in galera, e che Sofri vi sia stato tenuto comunque a torto perché l’ammazzamento d’un poliziotto - risalente oltretutto a 35 anni or sono - appartiene alla fisiologia degli anni di piombo. Pinelli, Calabresi, la spirale di delitto e castigo è sottintesa. Perché Sofri, se davvero il clima maramaldesco l’offende tanto, non ha deplorato le espressioni di Deaglio, e s’è limitato a generici auguri per Contrada?
Nelle sue righe Adriano Sofri mi attacca pesantemente per un commento dedicato a questa vicenda: e per avere tra l’altro scritto che, a differenza di Contrada, Sofri ha avuto un potente sostegno mediatico e sociale, cosicché la sua detenzione «è stata una passerella da star con interviste e articoli a profusione». Secondo Sofri in un «vegliardo» come me il tempo «non solo non attenua la voglia di odio e malaugurio, ma la istiga ed esacerba».
Sono addolorato, prima che offeso, da queste espressioni. Ho scritto con chiarezza in numerose occasioni d’essere favorevole alla grazia per Sofri, stritolato tardivamente dagli ingranaggi della legge, di credere che egli sia oggi tutt’altra persona da quella che esultava per l’uccisione di Calabresi, di avere rispetto per la sua statura morale e per le sue sofferenze. Ma è possibile negare che l’imputato, il condannato, il detenuto Sofri abbia goduto d’una condizione di particolarissimo favore - che poco aveva a che fare con il problema di fondo della colpevolezza e dell’innocenza - da parte dell’intellighenzia italiana e dei suoi veri o presunti Maestri? È possibile negare che nei confronti di Sofri vi sia stato un innocentismo pregiudiziale, uguale e contrario al colpevolismo nei confronti di Contrada? La mia critica non era rivolta a Sofri, ma al partito dei «sofristi». Confesso di non avere nessuna certezza della responsabilità di Sofri per l’agguato a Calabresi, così come non l’ho per le collusioni di Contrada con i boss mafiosi. Ho solo dubbi, al riguardo.

Nessun dubbio invece nel ribadire che Maramaldo, solo che abbia un minimo di comprendonio, non se la prenderà mai con Sofri - in difesa del quale farebbe quadrato l’Italia che conta -, se la prenderà sempre con Contrada.

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