Licenziata da un posto pubblico per aver abusato dei propri diritti di lavoratore. Per aver «dimostrato di intendere la pubblica amministrazione come ricettore passivo di qualsivoglia richiesta senza presupporre la sussistenza di obblighi». Una motivazione sui generis quella del giudice del lavoro milanese Gianluca Alessio, ma che meglio non potrebbe spiegare perché Francesca R., giovane laureata napoletana è stata licenziata dall’Ufficio dell’Agenzia delle entrate e, secondo il giudice, giustamente. Assunta a tempo indeterminato nel 2007 la giovane aveva accettato di trasferirsi al Nord pur sapendo che la nuova legge Brunetta prevede l’obbligo di restare almeno 5 anni nella sede assegnata.
Ma probabilmente non erano questi i piani della neo assunta visto che, scrive il giudice «attraverso una serie di iniziative e condotte che prendevano spunto da diritti e prerogative inerenti lo status di dipendente, Francesca R. da un lato riusciva a creare una situazione di malfunzionamento, con vera e propria sottrazione di risorse ed impegno lavorativo, dell’ordinaria attività, e disagio allo scopo di esercitare un’indebita pressione sull’Amministrazione per ottenere il trasferimento presso il luogo di residenza della famiglia di origine, Napoli». Un atteggiamento definito «patologico» nei confronti del datore di lavoro, «abusando della disciplina a tutela del dipendente». Il giudice ha passato in rassegna i principali atti della giovane «che evidenziano il carattere strumentale, irrispettoso nei toni, abnorme del proprio modo di interloquire con i responsabili dell’Amministrazione».
A partire dalle innumerevoli istanza di accesso agli atti e del carattere effimero di alcune richieste. E poi «le continue domande in ordine al mutamento del titolo dell’assenza, la richiesta rivolta a tale proposito, con cadenza regolare, relativa a singoli giorni di ferie, di aspettativa, di malattia, la sostanziale inutilità del flusso alluvionale di richieste e di lamentele non seguite da alcuna iniziativa ad effettiva tutela dei propri diritti, ma con lo scopo, neppure celato, di potere formalizzare denunce, costituiscono indice coerenti tra di loro di tale intento». In più di un’occasione la dipendente si era lamentata «della condotta tenuta dal datore di lavoro apertamente punitiva e sanzionatoria». In ultimo accusando l’amministrazione pubblica di averle provocato uno stato di prostrazione tale da indurla a sottoporsi a cicli di psicoterapia. E ancora si lamentava di «comportamenti apertamente vessatori da parte di superiori e colleghi (diniego di aspettativa per motivi personali, diniego di ferie, diniego di ogni forma di mobilità per assistere i propri familiari, mancata partecipazione a corsi e/o momenti di formazione, attribuzione di incarichi non desiderati) rientranti nella sfera del mobbing».
Mediante il profluvio di istanze e ricorsi (quelle citate sono solo una parte) «la dipendente - scrive il giudice - ha coltivato l’inconfessata aspettativa di creare pressione nei confronti dei responsabili amministrativi».
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