I pm: Di Caterina come Greganti «100 milioni a Botteghe Oscure»

MilanoL’investigatore azzarda un parallelo fisiognomico. «Anche a guardarlo in faccia, Di Caterina ricorda Primo Greganti». Uno, Piero Di Caterina, è la «gola profonda» che dopo anni di patti con la politica ha aperto uno squarcio sul presunto sistema di tangenti che sta inguaiando il leader Pd Filippo Penati. L’altro, Greganti, è il compagno G, l’uomo che negò fino all’ultimo di aver preso la tangente Enel da girare al Pci.
Sono passati vent’anni da Mani Pulite, eppure certe storie ritornano. Perché oltre alle somiglianze, si parla ancora di mazzette. E poi, c’è una differenza cruciale. Greganti non confessò. Di Caterina, invece, parla. Non solo, perché un anno fa gli vengono sequestrati dei documenti durante la perquisizione effettuata dalla Gdf negli uffici delle Caronte srl (la società di trasporti pubblici che opera a Sesto San Giovanni, di cui è il titolare) e nella sua abitazione. Nel maggio del 2010, come scritto ieri, le Fiamme gialle trovano una contabilità parallela. Presunti fondi neri. Inoltre, ci sono degli appunti che potrebbero spingere l’inchiesta fino a Roma. I finanzieri li scoprono in una cassaforte dell’imprenditore. Si tratta di annotazioni su movimenti di denaro che - secondo quanto risulta al Giornale - riportano i nomi di alcuni politici nazionali del centrosinistra (quando il Pd era ancora Ds), e che riguardano dei finanziamenti effettuati a cavallo del 2000, per un totale di circa cento milioni di lire. «Spiccioli», li definisce l’investigatore. Spiccioli, rispetto all’enorme mole di denaro su cui si stanno muovendo gli inquirenti.
È ancora difficile ricostruire i contorni esatti della vicenda. La Procura di Monza gioca a carte coperte, ma il quadro messo insieme dagli inquirenti inizia a delinearsi. C’è un imprenditore - il costruttore Giuseppe Pasini - che si presenta ai magistrati dichiarandosi concusso. Penati - spiega - nel 2000 gli avrebbe chiesto circa 20 miliardi di lire per favorirlo nel grande affare della riqualificazione dell’area industriale dell’ex Falck. C’è Di Caterina, con cui il leader Pd ha un lungo trascorso d’affari, che sarebbe stato il collettore delle mazzette, l’uomo presso cui il denaro passa per poi essere smistato ai politici. «Si è trattato di pagamenti in cambio di favori», mette a verbale Di Caterina davanti ai pm il 24 giugno del 2010. «Mi ero messo in affari con Penati e Vimercati (ex capo di gabinetto di Palazzo Isimbardi, ndr)» perché così «mi hanno consentito di partecipare a operazioni per me lucrose». Insomma, tangenti che ritornano sotto forma di affari. Poi ci sono l’immobiliarista Luigi Zunino e il re delle bonifiche Giuseppe Grossi, già finiti al centro di un’inchiesta per i lavori del quartiere di Santa Giulia, e i cui nomi tornano anche in questa indagine. Ci sono le coop rosse (due i funzionari sotto inchiesta), che entrano nell’affare Falck quando la Sesto Immobiliare di Davide Bizzi acquisisce proprio da Zunino, e di cui la società Sesto Futura - veicolo del Consorzio cooperative di costruzione di Bologna - detiene il 10%. C’è, poi, un «faro» sull’operazione Serravalle. Nel 2005, la Provincia di Milano, guidata da Penati, compra il 15% delle quote dal costruttore Marcellino Gavio, scomparso nel 2009, e paga ogni azione 8,973 euro contro i 2,9 spesi da Gavio. Un’affare che solleva molte perplessità e qualche retropensiero. Il costruttore, infatti, incassa un utile netto di 179 milioni di euro, 50 dei quali finiscono nella cordata con cui Unipol tenta la scalata di Bnl. E nell’inchiesta di Monza sono finiti con un’accusa di corruzione anche i protagonisti di quell’operazione. Da un lato, Penati, Vimercati e (come riportato ieri dal quotidiano la Repubblica) l’ex segretario generale Antonino Princiotta. Dall’altro, Bruno Binasco, manager delle aziende di Gavio.
La maxi inchiesta di Monza su corruzione e finanziamento illecito ai partiti, dunque, rischia di aprire un’armadio pieno di scheletri. E paradossalmente, è proprio questo il rischio. Che di tempo ne sia passato troppo. Almeno, per quei cento milioni di lire che sarebbero finiti ai politici nazionali del centrosinistra, e di cui è stata trovata traccia in una cassaforte di Sesto San Giovanni. Da allora sono passati più di dieci anni. La prescrizione, dunque, si porterà via gli eventuali reati.

Ma il «sistema Sesto» - hanno spiegato i tanti testimoni e gli imprenditori indagati sentiti dai pm - è andato avanti negli anni. Secondo gli inquirenti, fino alla fine del 2010. Non tutto, dunque, sarà sepolto dal tempo.

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