I ribelli del Prc: questa volta Prodi può andare al tappeto

da Roma

Qualcuno lo ha già battezzato «Kyrill», e in tanti lo attendono con trepidazione. D’altronde il voto per il rifinanziamento della missione in Afghanistan può diventare per il governo come il passaggio di quel ciclone: extraequatoriale e inatteso. Un risucchio di anomali venti caldi che non tralasciano però di scoperchiare case e abbattere alberi. A renderlo così insidioso, l’afflusso imprevisto di ulteriore aria di scontento: quella suscitata dal «sì» al raddoppio della base Nato di Vicenza.
«Un uno-due che rischia di mandare al tappeto la solidità del governo», lo definisce Claudio Grassi, senatore rifondatore e guida del gruppo dei «ribelli», che a luglio tenne banco per oltre quaranta giorni. Tenne banco sui giornali e mantenne la posizione in Parlamento: un «no» secco al decreto che rifinanziava la missione, fino alla provvidenziale «questione di fiducia». Grassi segue il nuovo «tornante della politica estera» con trepidazione: dai suoi giri per sezioni sa che «la nostra gente è in subbuglio». Il popolo della pace attende «un segnale vero», e invece il governo che ti fa? «Come sempre quando ci sono di mezzo gli Usa s’inchina...». Non c’entra l’antiamericanismo, ma è questo il punto di contatto tra le due vicende. Due colpi, un «uno-due» anti-pacifista, che surriscalda l’aria e fa temere il «Kyrill». Sapendo che «ora non ci possono prendere in giro, non si può ricorrere ad alcun artificio del tipo già sperimentato a luglio...», dice Grassi.
Occorre un riequilibrio nella maggioranza: trovare il modo di raffreddare gli animi di una sinistra pacifista in sofferenza, che pure ieri pomeriggio ha manifestato a Bologna contro Prodi. «Andiamo sotto la casetta del premier - ha detto uno degli animatori della protesta giunto da Vicenza - per fargli capire che una base Usa sotto casa non è una cosa simpatica». Due-trecento manifestanti non sono una grave minaccia. Ma lo slogan - «contro tutte le guerre contro tutti gli eserciti» - è un segnale che se Prodi e Rutelli possono forse ignorare, Giordano, Pecoraro Scanio e Diliberto no.
Per questo non sarà facile, stavolta, «riequilibrare» la doppia botta al pacifismo con qualche semplice «artificio»: la Conferenza internazionale, il monitoraggio, altre vaghe promesse. Prodi si è raccomandato con D’Alema per riuscire a trovare una formula che soddisfi la sinistra, «tanto prima o poi ce ne dovremo andare...», avrebbe detto. Ma nel decreto un accenno serio alla «exit strategy» pare non ci possa essere. Ed esso resta, al momento, la condizione irrinunciabile dei «ribelli di luglio» e dei leader radicali. Lo stesso Bertinotti si starebbe impegnando per aiutare il governo a scongiurare l’abbattersi di «Kyrill». Anche perché il riformismo centrista, sconfitto a Caserta, ha trovato con «il rispetto degli impegni internazionali» una nuova frontiera di scontro. Oltre a Prodi, D’Alema e Fassino, ieri lo ha ribadito anche Rutelli: «Siamo un Paese che prende gli impegni e li mantiene, perché siamo un Paese serio. Non si cambiano decisioni così importanti».
Toni che sembrano fatti apposta per surriscaldare il vento della protesta. Se è chiaro che il governo sarà ancora una volta costretto al voto di fiducia, stavolta al Senato, specie in politica estera, la maggioranza non esiste. La disponibilità mostrata da Berlusconi e Bossi (da quest’ultimo persino sull’eventuale fiducia) mette in guai seri Prodi. Per questo il capogruppo verde, Angelo Bonelli, ha insistito ieri per un vertice di maggioranza che faccia trovare al governo un bandolo in questa matassa. Nessuno vuole la crisi, neppure la sinistra radicale.

Però stavolta «aspettiamo qualcosa di più», «non possono dare colpi così violenti alla solidarietà di coalizione», «un percorso di ritiro va intrapreso». Il voto al Senato si avvicina, e sui tornanti della politica estera si rischia l’osso del collo a ogni curva.

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