I rivoluzionari dell'ente pubblico

"Ente siamo ed ente resteremo": questo il grido guerriero intonato ieri, davanti a Montecitorio, da qualche centinaio di tumultuanti metronotte. Un grido che ne riecheggiava altri di storica importanza, come “Roma o morte” e “no pasaràn”: ma che sotto l’ammanto eroico evocava i cavilli burocratici e i ricorsi al Tar. Battaglia strenua - con lo scoppio d’un petardo e una tentata irruzione nella Camera - non per fini di patria nobiltà ma per restare ente.

Cosa ciò significhi in concreto non l’ho capito bene, e temo che non lo capirei a fondo nemmeno se a fondo mi c’impegnassi. Ci vuole il Tar, ci vogliono gli avvocati dello Stato, ci vogliono i bassi e gli alti magistrati - il buon senso del cittadino comune è tassativamente escluso dal dibattito - per orientarsi nei meandri dell’ente e dell’esistente burocratico. Non voglio dubitare delle umane ansie, trepidazioni, delusioni che hanno indotto i vigilantes dell’Urbe ad una azione così clamorosa. È possibile, è perfino probabile che abbiano individualmente molte buone ragioni. Ma la connessione tra i metronotte e l’Associazione nazionale combattenti e reduci ha aspetti misteriosi. Perché mai questa Associazione, la cui origine e i cui fini sono chiaramente indicati nella denominazione, ha generato la società che include i vigilantes?

La faccenda avrebbe un senso se i vigilantes fossero reduci di guerra, ma in tal caso dovrebbero aver raggiunto almeno la novantina, e non sembra che i metronotte infuriati siano dei vegliardi. Lo so, il reducismo assume in Italia connotazioni stravaganti, l’ultimo garibaldino era sempre il penultimo, vengono oggi rivendicate pensioni per gesta risalenti ad oltre mezzo secolo fa, e tra autentici valorosi partigiani del tempo che fu si annovera una folla di partigiani dell’ultimissima ora, più degli autentici smaniosi di mettersi in mostra. Non voglio indugiare sulle tecniche da tifoseria stralunata con cui i metronotte hanno voluto ottenere l’attenzione del governo, provocando i poliziotti con urli di “denunciateci, denunciateci”.

Queste audacie autoaccusatorie sono molto praticate là dove non comportano alcun rischio - il riferimento all’Italia è d’obbligo - là dove il rischio c’è vengono usate con ben maggiore parsimonia. Ritengo inoltre che né il governo né parlamentari singoli avrebbero dovuto riceverli e ascoltarli se prima non si fossero dati una calmata. Ma ormai tutti hanno imparato che la piazza conta se schiamazza, se tace si suppone che consenta. Lascio dunque da parte questi malumori anacronistici emi limito a un suggerimento rivolto ai vigilantes (altri ne ho per chi dovrebbe vigilare sui vigilantes, ma preferisco glissare). Rivendichino pure i loro diritti, ma parlino chiaro.

“Non vogliamo perdere il posto”, “chiediamo garanzie per il futuro”. Appelli sacrosanti. L’invocazione “ente siamo ed ente resteremo” ce la risparmino. Nell’Italia degli enti inutili - e costosissimi - non suona bene.

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