«Un’idea forte minacciata dal nuovo potere tecnocratico»

Marcello Veneziani, c’è una democrazia di destra e una di sinistra?
«Credo che la democrazia non sia né di destra né di sinistra, ma sia la precondizione per esprimere liberamente percorsi di destra o di sinistra».
Ma qual è la differenza tra le due versioni?
«La linea di discrimine è il realismo. Dal punto di vista della destra la democrazia merita uno sguardo disincantato. La democrazia non è un fine ma un mezzo fondamentale per esprimere una comunità, la cittadinanza, per esercitare la libertà attraverso un governo. Il tratto fondamentale di un realismo di destra riguardo alla democrazia è in prima istanza l’aborrimento delle utopie. Non è vero che la parola democrazia si possa realizzare alla lettera, non esistono sovranità popolari e governo dei molti, l’unica vera differenza è tra governo di pochi nell’interesse dei molti e governo dei pochi nell’interesse di pochi. Solo questo differenzia una vera democrazia da un’oligarchia. Non esistono autogestioni della società, autogoverni di massa, esiste comunque una minoranza che governa. Le buone democrazie sono minoranze che governano nel modo più possibile trasparente con la finalità dell’interesse generale. Ma pensare che possano governare le masse è già un’utopia e quindi una democrazia che, dal punto di vista della destra, sconfina nel suo rovescio, nel dispotismo».
Ma l’idea della democrazia come strumento e non come un fine non può essere pericolosa per la democrazia stessa?
«No, semmai il contrario. Quando la democrazia diventa un valore in sé si riduce a feticcio, e dietro ai feticci si nascondono i dispotismi. La democrazia è un grande metodo, un mezzo per avere una società migliore, in cui gli interessi generali siano tutelati e le categorie più deboli protette e anche i valori condivisi siano rappresentati».
Per la sinistra invece la democrazia è un fine?
«Per la sinistra la democrazia si carica innanzitutto di tratti pedagogici, diventa un esercizio di educazione a un modello pubblico, c’è quindi un tratto pedagogico che può diventare coercitivo e correttivo. L’idea che l’individualità vada corretta, tipica delle culture di sinistra, ha come risultato fuoriuscite dalla democrazia o forzature della democrazia. Come è una forzatura l’idea dell’autogoverno delle masse, che capovolge l’assunto della democrazia sull’uguaglianza delle condizioni di partenza, scambiando l’uguaglianza con il fine. Questi tentativi correttivi della democrazia sovrappongono alla realtà, fatta di disuguaglianze e diversità, un’artificiosa e dispotica modificazione».
Quali sono invece a destra i gemi degenerativi della democrazia?
«Mentre a sinistra il rischio di deriva delle democrazia è quella totalitaria e giacobina, il rischio a destra è la deriva autoritaria o plebiscitaria. A sinistra, cioè, c’è il rischio che una democrazia sottratta al libero confronto delle opinioni possa rivelarsi prima paternalistica e poi autoritaria. Dall’altra parte il rischio è che una democrazia sempre più affidata al rapporto diretto tra leader e popolo possa diventare una democrazia plebiscitaria, populista e tendenzialmente cesarista».
Rischi presenti anche oggi?
«Meno, non per una ragione politica, ma perché la politica oggi decide poco, i poteri forti sono fuori dalla politica, sono di natura economica e tecnocratica. Anzi, direi che le principali minacce alla democrazia non vengano né da destra né da sinistra ma proprio da questo potere tecnocratico fondato sulla spoliticizzazione, per cui la politica conta sempre meno e contano di più le perfomance tecniche o economiche. Gli interessi mercantili ed economici attengono invece sempre a una minoranza, a gruppi di potere. In questo modo di cittadini diventano consumatori, non più sovrani, e la democrazia si trasforma in oligarchia. Il rischio più forte per la democrazia occidentale oggi è questo».
Vede nelle forze di centrodestra politici all’altezza di questa sfida?
«No, non li vedo né nella destra né nella sinistra.

I politici mi sembrano ormai accettare questa loro marginalità, questo ruolo subalterno della politica rispetto al mercato. I governi nazionali decidono poco. Le decisioni importanti sono ormai fornite da tendenze economiche generali e indicazioni di banche centrali».

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