Caro San Matteo, i soldi alle imprese dateli subito

Lo Stato e l'individuo non vivono mai lo stesso tempo. È questo che la politica, il potere, fatica a capire

Caro San Matteo, i soldi alle imprese dateli subito

Lo Stato e l'individuo non vivono mai lo stesso tempo. È questo che la politica, il potere, fatica a capire. Per un burocrate sei mesi sono un giro di clessidra, un granello di sabbia rispetto all'eternità. Per un imprenditore sono tutto, la differenza tra la vita e la morte. Sei mesi significa che sei già spacciato, con una lunga agonia di banche che martellano, di dipendenti senza stipendio, di notti insonni, di bestemmie e maledizioni, di figli da far studiare, di «non sai cosa farò domani». Qualcuno si ammazza. Quando sei sull'orlo del fallimento un giorno può fare la differenza. Tutto questo mentre i soldi che ti deve lo Stato per il tuo lavoro non arrivano. Non ci sono.

Cosa dice Renzi a questi imprenditori in credito con lo Stato? State tranquilli. Perfetto. State tranquilli che arriveranno. E tutti pensano al famoso messaggio a Enrico Letta. Seguono scongiuri. Il premier sorride, rassicura, va dalla Merkel a fare la riverenza. Il tempo intanto corre. Fa come quelli che ogni giorno inventano una scusa per non ridarti i soldi. Cose tipo: non mi funziona il bancomat. Oppure, dammi un paio di giorni, qualche settimana, diciamo sei mesi, fai passare l'estate ed è tutto a posto. Sei mesi? L'estate? Forse qualcuno non ha capito che domani è già troppo tardi.

Renzi invece non ha fretta. Antonio Tajani, vice presidente della commissione Ue, gli rimprovera per esempio la scelta del disegno di legge. Non era meglio un decreto? La necessità c'è, e l'urgenza ancora di più. Ma il governo va avanti con il suo passo. Sta ancora scrivendo la bozza del Ddl. Si affida alla buona volontà della Cassa depositi e prestiti. Ragiona sul debito, sul Pil, sul rapporto tra deficit e Pil, sulle coperture. Solo che quei 68 miliardi da restituire alle imprese sono sempre lì, a fare la muffa nella pancia grassa e vorace dello Stato. Stanno lì e francamente non servono a nulla. Rimettere quei miliardi in circolo significa speranza, significa futuro, lavoro, produzione. Il pubblico onora i suoi debiti e si becca pure i suoi diciannove miliardi di tasse. È una questione di onore, di auctoritas e di dignitas. Come ti puoi fidare di uno Stato cattivo pagatore? Lo stesso Stato che ti soffoca di tasse e ti fa la morale sull'evasione fiscale. Lo Stato previdente che forse però non ti darà mai la pensione. Ma soprattutto uno Stato che non vede il tempo degli individui. Non lo riconosce. Non lo comprende.

Matteo Renzi, sempre sorridendo, ti indica una data. Lo fa porta a porta, da Vespa. I soldi arriveranno il giorno del mio onomastico. San Matteo, il 21 settembre, quando l'estate è finita e comincia il lungo autunno del nostro scontento. Ora tutti sanno che Matteo ha visto la luce. La conversione raccontata da Caravaggio è sublime, con Matteo che conta i denari, il dito di Cristo e il raggio che squarcia il buio. Però Matteo era un pubblicano, un esattore, e tra tutti i santi non è esattamente quello più caro agli imprenditori.

Ora Matteo dice «state tranquilli», date a Cesare quel che è di Cesare e ai poveri cristi quello che è dei poveri cristi. Magari tutti i pubblicani ritrovano la luce e i burocrati il tempo e San Matteo davvero ci fa la grazia. Sperando che non sia troppo tardi.

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