Maroni, l’ex superministro costretto a fare il mediatore

Il segretario non è Bossi, deve trattare con i colonnelli. E nei passaggi chiave si èammantato di giustizialismo

Maroni, l’ex superministro costretto a fare il mediatore

Ha preso davvero una cantonata il Cav quando ha proposto a Roberto Maroni di rinnovare l'alleanza che già ci fu tra lui e Umberto Bossi. Un errore politico e psicologico che faceva presagire il no di Bobo: «Caro Silvio, se ti candidi a premier, niente patti con la Lega. Non ti vogliono né i militanti, né gli amministratori, né i parlamentari». Benvenuto invece Angelino Alfano. Per il Cav, una sberla in piena faccia.
Berlusconi è stato ingenuo. Credeva di avere ancora a che fare con Bossi, ma aveva di fronte Maroni. Accantoniamo per ora il carattere oscillante di Bobo e veniamo alla sua posizione nella Lega Nord. Eletto segretario il primo luglio di quest'anno nel tumulto dell'affaire Belsito, Maroni è stato percepito dai militanti smarriti come la ciambella di salvataggio a portata di mano. Non il capo sceso dal cielo con l'aureola dell'eroe padano che schiude gli orizzonti del futuro. Solo una guida transitoria con quel che passa il convento. Lontanissimo dal carisma di Bossi. Basta sentire come ne parlano capi e capetti leghisti sostenendo la sua candidatura alla guida della Regione Lombardia: «È il meglio che c'è», «ha le carte in regola» e cose così. Cioè, la piena consapevolezza che il loro campione non è un fuoriclasse ma un primus inter pares, dietro al quale scalpitano - aggressivi e con più alone - i Flavio Tosi, Matteo Salvini e ruspanti vari.

Al Cav è sfuggito che Maroni non è in grado di imporre la propria volontà alla Lega. Non è Bossi che decideva a capriccio e la truppa seguiva. Bobo deve chiedere, mediare, non alzare la voce e tenere conto al millimetro dei desiderata dei suoi colonnelli. Come un condottiere del basso impero, obbedisce fingendo di comandare. Gli umori profondi dei leghisti sono contrari al Berlusca, e non da oggi. La cosa con Bossi era messa a tacere dall'indiscutibilità del capo e oggi emerge senza remore. Bobo deve tenerne conto. Quindi, qualsiasi promessa Maroni gli faccia a quattr'occhi, sappia Berlusconi che, una volta tornato in sede in via Bellerio, Bobo se la rimangerà.

Ondeggiare è nel suo carattere. C'è in lui una certa doppiezza che suggerisce di diffidarne. Come altri politici di non prima grandezza, Maroni si ammanta di giustizialismo, per darsi un tono legalitario. Ed è in questo ambito che ha colpito la sua spregiudicatezza in due episodi.
Un anno e mezzo fa, la Camera doveva decidere se autorizzare l'arresto del deputato Pdl, Alfonso Papa, magistrato in aspettativa. Papa, napoletano, era accusato di corruzione dal suo collega anglo-compaesano Woodcock, noto per non azzeccarne una. Già questo avrebbe dovuto mettere in guardia. Il Pdl era infatti orientato a negare l'autorizzazione e aveva convinto Bossi a fare lo stesso. Bobo, invece, allora ministro dell'Interno - e già ai ferri corti con Umberto - aveva deciso di mandare Papa in gattabuia, persuadendo a seguirlo la stragrande maggioranza dei leghisti, noti estimatori di cappi e manette. Durante il voto, Maroni mostrò platealmente l'indice della mano sinistra, per rendere palese all'Aula la pressione sul pulsante del sì. Fatta la bravata dichiarò: «Noi siamo coerenti». Non precisò a quale sacro principio. Papa passò cento giorni a Poggioreale e poco dopo Riesame e Cassazione stabilirono che Woodcock aveva ammannito la solita patacca e che il deputato era stato ingiustamente detenuto. Per giustificarsi, Bobo disse che lui del merito se ne infischiava, ma aveva voluto la galera per dare un segno di «legalità». Peggio il tacòn del buso, poiché non è chiaro di che legalità parli se la detenzione era, appunto, illecita. Passi la scontata incoerenza del politico ma se pensiamo che Maroni è pure avvocato, c'è da augurarsi di non incrociarlo per strada.
L'altro episodio è recentissimo e ci tocca nella carne. A metà novembre si discuteva al Senato di evitare la galera ai giornalisti condannati per diffamazione. C'era un mezzo accordo e per Alessandro Sallusti si intravedeva una speranza. Di colpo, invece, i leghisti di Maroni, in combutta con un transfuga radicale oggi clericaleggiante, presentarono un emendamento che ripristinava i ceppi. Coperti dal voto segreto, i senatori rivelarono la loro intima natura approvando la proposta sbirresca. Si sa come poi andarono le cose. La galera fu nuovamente cancellata, ma ci si accapigliò su questo e quello, finché la legge è finita su un binario morto, Sallusti agli arresti e il Giornale nelle peste. Ma torniamo all'emendamento Maroni-Rutelli. Dopo l'approvazione Sallusti rivelò nel suo editoriale che, il giorno precedente al voto, Maroni gli aveva mandato un suo libro accompagnato da una dedica affettuosa: «Buona lettura e buon lavoro». Ossia, falso come Giuda. Rimasto in braghe di tela, Bobo fece una piagnucolante retromarcia il giorno dopo con un'intervista su queste pagine. «È stato un errore - belò - mai i giornalisti in galera. La libertà di stampa è nel Dna della Lega nord». Quando più su ho parlato di doppiezza maroniana, intendevo questo.

Per concludere il periplo sulla personalità politica di Maroni vanno aggiunte due cose. La prima: è stato nei governi Berlusconi un eccellente ministro sia del Lavoro sia dell'Interno, dando prova di essere più portato nelle scelte politico-amministrative che in quelle politico-partitocratiche. L'altra è più delicata e oscura. Bobo ha infatti suscitato il sospetto in una parte della Lega di essere all'origine dello scandalo che ha travolto la famiglia di Umberto Bossi. Non ovviamente dello scandalo in sé, che è nelle cose, ma della sua scoperta. Per capire, bisogna ricordare che a indagare sul tesoriere Belsito e le presunte mazzette al Trota e famiglia fu quel medesimo pm napoletano Woodcock cui Bobo, come abbiamo visto, aveva consegnato dieci mesi prima il deputato Papa in manette. Facendo due più due, i bossiani pensarono a uno scambio di favori: io ti ho dato Papa, tu mi dai Bossi. L'accusa, mai formulata apertamente per mancanza di prove, è però furtivamente circolata. Né era questa la prima volta in cui fu intravisto lo zampino di Maroni nella logorante guerra seguita alla malattia di Bossi, presunto prigioniero del cerchio magico guidato dalla moglie Manuela. Già sotto Natale dell'anno scorso comparve, infatti, un articolo di Repubblica su un festino con droga cui avrebbe partecipato in quel di Brescia, l'allora consigliere regionale lombardo, Renzo Bossi.

L'orgetta del Trota fu smentita dalla sua tutrice, l'assessore lombardo allo Sport, Monica Rizzi, che parlò di «mandanti» e «mele marce», insinuando che a dare l'offa ai giornali poteva essere solo chi aveva un piede - sottinteso, come ex ministro dell'Interno - negli ambienti investigativi. Di vero, con ogni probabilità, non c'è niente. Ma se suscita questi dubbi, Maroni ha un problema.

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