L'Italia palla al piede della Fiat

Il nostro sentimento patriottico sarà forse deficitario, ma il successo della Fiat negli Stati Uniti, in Canada, in Messico e in Brasile ci fa piacere

L'ad del Lingotto, Sergio Marchionne
L'ad del Lingotto, Sergio Marchionne

Il nostro sentimento patriottico sarà forse deficitario, ma il successo della Fiat negli Stati Uniti, in Canada, in Messico e in Brasile ci fa piacere, anche se in Italia - dove le vendite di auto battono la fiacca - il suo artefice, Sergio Marchionne, è reputato quasi un traditore e sicuramente un nemico dei sindacati, e non solo, perché qui non è riuscito a bissare il miracolo compiuto all'estero.

I dati dell'invidiabile performance Fiat sui citati mercati stranieri sono strabilianti, soprattutto tenuto conto della crisi mondiale: incrementi che superano in certi casi il 120 per cento. Gli appassionati di numeri compulsino nelle pagine interne un articolo di Pierluigi Bonora, uno specialista, che offre un quadro dettagliato della crescita ottenuta in America dal dirigente nato in Abruzzo.

Da segnalare che negli Usa la «500» ha registrato un autentico boom; e che in Brasile i modelli progettati a Torino sono in vetta alla classifica delle immatricolazioni dello scorso anno. Considerato ciò, è naturale chiedersi perché un'impresa entro i confini nazionali fatichi a stare in piedi e fuori, invece, faccia faville. La risposta può essere solamente una e non suona come un encomio per il lavoro italiano: se le macchine di Marchionne vanno a ruba dappertutto, meno che da queste parti, qualcosa non va nel nostro Paese e non in Marchionne.

Che cosa? Il costo lordo della manodopera è troppo alto; la legislazione in materia di lavoro dipendente penalizza le aziende; le tasse riducono ai minimi vitali le buste paga; la mancata abolizione dell'articolo 18 impedisce la necessaria flessibilità; il trasporto delle merci è lento; le infrastrutture sono inadeguate; la burocrazia è soffocante; infine, si è ristretto il mercato europeo dell'automobile, probabilmente a causa di un generale impoverimento della popolazione. In sintesi, gestire una fabbrica nella penisola comporta costi e grane insostenibili e tali da scoraggiare chiunque desideri intraprendere, mentre in altri Paesi le iniziative industriali sono agevolate, quando non addirittura incentivate.

Se la realtà è questa, ovvio che la Fiat, per quante rassicurazioni dia alle forze sindacali e al governo, preferisca levare le tende da qui e impegnarsi a produrre dove maggiormente convenga e dove sia più facile reggere alla concorrenza. I liberali lo insegnano da sempre, invano: i capitali si investono se garantiscono una rendita, altrimenti rimangono congelati o si indirizzano verso la finanza.

Il denaro ha ragione anche se ha torto: è il titolo di un libro, che uscirà a giorni, scritto da Alberto Mingardi, in cui si spiega come e perché l'economia non sopporti lacci e lacciuoli ed esiga il massimo di libertà.

La tesi di Mingardi si conferma valida anche nella singolare vicenda della Fabbrica Italiana Automobili Torino. Nemo propheta in patria? Non c'entra. Il problema è un altro: per fermare il declino, dobbiamo correre verso il futuro e non sprofondare nel passato.

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