Trattamento morbido del Consiglio superiore della magistratura per Annamaria Fiorillo, pubblico ministero in servizio presso la Procura dei minori di Milano, divenuta celebre per il suo ruolo nel caso Ruby. Alla Fiorillo, sottoposta a procedimento disciplinare per le sue dichiarazioni alla stampa sulla vicenda, il Csm ha inflitto la sanzione della censura: una delle più blande previste dall'ordinamento disciplinare per le toghe (seconda, per lievità, solo all'ammonizione). Nonostante la leggerezza del provvedimento, la Fiorillo ha già annunciato che ricorrerà in Cassazione per ottenerne l'annullamento.
«Sono entrata in questa vicenda come Forrest Gump», ha detto stamattina la Fiorillo ai colleghi che dovevano giudicarla: una sorta di ingenuo vaso di coccio in una vicenda più grande di lei. Ed in effetti è questa l'impressione di sè che spesso la dottoressa ha dato. Ciò non toglie che nella vicenda processuale del caso Ruby la sua testimonianza abbia assunto un peso rilevante a carico di Silvio Berlusconi. La Fiorillo infatti era di turno la notte del 27 maggio 2010, quando Ruby venne fermata e portata in questura e Berlusconi telefonò ai vertici della polizia milanese. Con quella telefonata, secondo la procura milanese, il Cavaliere costrinse la questura a liberare Ruby, contravvenendo alle disposizioni che erano state impartite proprio dalla Fiorillo. Da qui l'accusa di concussione.
Roberto Maroni, allora ministro dell'Interno, scese in campo in difesa della polizia milanese, rivendicando la correttezza dell'operato dei tre funzionari coinvolti nella vicenda. E la Fiorillo replicò bruscamente a Maroni, ribadendo ai microfoni delle televisioni di non avere mai autorizzato il rilascio di Ruby e di avere anzi disposto di trattenerla in attesa dell'affido a una comunità.
Con quelle dichiarazioni, stabilisce oggi il Csm, la dottoressa ha violato gli obblighi di riservatezza sui suoi fascioli. Ma i colleghi sottolineano adottano la censura quasi a malincuore, sostenendo che la Fiorillo era comunque dalla parte della ragione. Il sostituto procuratore generale Elisabetta Cesqui, che sosteneva l'accusa nel procedimento disciplinare, si è spinta ad affermare che «la verità sulla condotta del magistrato è stata stabilita ed è stata data piena ragione alla sua ricostruzione dei fatti».
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