nostro inviato a Firenze
«Sono pragmatico, si vince con un voto in più. Due milioni di partecipnti alle primarie sarebbero un successo». Nel giorno in cui si apre la Leopolda, Matteo Renzi abbassa l'asticella della corsa a segretario sapendo che stavolta sarà difficile portare masse alle urne. E sull'ultima vicenda giudiziaria di Berlusconi va controcorrente: «Prodi è caduto non per un senatore comprato, cosa gravissima se vera, ma per colpa dellla sinistra».
Renzi aveva inziato la giornata di buon mattino assestando un colpo a Enrico Letta («Lui usa il cacciavite, mentre servirebbe il caterpillar. Ma lo capisco, come fa a farlo con quella maggioranza?»). Poi fa saltare i nervi al compagno di partito Stefano Fassina, accusato di non voler tagliare la spesa pubblica (il viceministro gli risponde piccatissimo: «Attendo fiducioso i frutti del coraggio di Renzi, presenti emendamenti e li valuterò») e al capogruppo Pdl Renato Brunetta, che si spinge fino a difendere la Bindi, cui Renzi consiglia di rinunciare subito all'indennità da presidente dell'Antimafia e di aprire un ufficio in Calabria, dove Rosy è stata eletta. L'unico che Renzi rispettosamente risparmia è Napolitano: nessuna polemica sull'intervento inusuale del Capo dello Stato sulla riforma elettorale. Certo, dice il sindaco, «se avesse convocato solo la maggioranza non sarebbe stato bello, ma ha detto che chiamerà anche l'opposizione, e facendo questo ha svolto il suo ruolo. Il problema è risolto». D'altronde, come fa notare più di un renziano, la pressante moral suasion che Napolitano esercita per spingere i partiti ad accelerare sulla riforma del Porcellum ha una spiegazione: «Ha capito che la baracca delle larghe intese non regge, e che si rischia di andare al voto in primavera. Perché l'insofferenza di tutto il Pd verso il governo con Berlusconi ha raggiunto il livello di guardia», dice uno dei colonnelli parlamentari di Renzi. E le parole di Epifani, che sfida il Pdl a «dire se vuole ancora sostenere questo governo», suonano come conferma di un clima sempre più incerto.
E anche alla Leopolda, tra i 100 tavoli tematici disseminati in platea, si annusa un'aria pre-elettorale: tutti chiamati da Renzi a «dare un nome al futuro» e a buttar giù idee e proposte che finiranno nel suo programma.
Dimenticato il grigio di Bari («un incidente di percorso», ammettono i suoi), Matteo Renzi torna alle origini, all'archeologia ferroviaria della Stazione Leopolda di Firenze, palcoscenico degli esordi del rottamatore. Ma i tempi sono cambiati a velocità vertiginosa. Basta un esempio per capire quanto: fino allo scorso anno, il Pd boicottava la Leopolda degli outsider organizzando contro manifestazioni con Bersani per oscurarla. Ora c'é la fila degli apparatchik per entrare, i parlamentari che un tempo si contavano sulle dita di una mano sono diventati un esercito di oltre 200 e lo stesso segretario Guglielmo Epifani ha chiesto di intervenire dal podio. «Ben venga, lo ascolteremo», concede Maria Elena Boschi, organizzatrice dell'edizione 2013 della Leopolda. Tanti «spingitori di carri», ex anti-renziani ora convertiti sulla via di Damasco: una folla di franceschiniani, ministro incluso; ex dalemiani di prima fila come Nicola Latorre, presidenti di regione e sindaci un tempo schierati altrove come Burlando, Emiliano, Fassino.
Accanto a loro, in coda per accreditarsi, c'è tutto lo strano popolo renziano: giovani geek informatici, amministratori locali da tutta Italia, imprenditori piccoli e grandi: sono previsti interventi del re del cachemire Cucinelli , dell'ad di Luxottica Guerra, di Farinetti di Eataly).- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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