«Pronti 18 miliardi di tagli alla spesa pubblica, una vera spending review, come ha fatto il governo britannico» annuncia il ministro dell'Economia italiano, Siniscalco, nel 2004. Quante spending review abbiamo fatto negli ultimi anni, senza riuscire a sgonfiare di un millimetro l'enorme spesa pubblica italiana (anzi, cresciuta dell'8% nell'ultimo decennio). Un taglio c'è stato: quello ai dossier sui tagli da fare. Spariti in qualche cassetto, sommersi dalla polvere, dimenticati in archivio. «Si avvia oggi il processo di revisione della spesa pubblica» annunciò, cinque anni fa, il ministro Tommaso Padoa Schioppa. Nominata all'uopo anche l'immancabile Commissione di super-esperti di tagli alla spesa pubblica. Poi persi per strada. «Nella nostra spesa pubblica ciò che lascia a desiderare non è tanto il suo elevato livello (circa il 50% del Pil) quanto la qualità insufficiente» scriveva Padoa-Schioppa nel suo Libro verde sulla spesa pubblica, testo di riferimento per i successivi tentativi - andati male - di rivedere la voce «uscite» dello Stato italiano. «Riqualificare la spesa - concludeva - è perciò divenuto un imperativo urgente e ineludibile». I capitoli di questo eterno libro sono sempre gli stessi. Troppe e cattive spese soprattutto nei settori della sanità, della giustizia, del pubblico impiego, delle amministrazioni locali. Quanto si potrebbe risparmiare rivedendo, con l'accetta, la spesa annuale dello Stato? Una montagna di soldi, altro che i 6 miliardi di euro che il governo non riesce a trovare per scongiurare l'aumento dell'Iva e l'Imu. Nelle 47 pagine del rapporto Elementi per una revisione della spesa pubblica firmato, un anno fa, da Piero Giarda, ministro del governo Monti, di tagli ce ne sono a non finire. Cento miliardi di spesa pubblica (su 800) «aggredibile nel breve periodo» e che riguarda «lo Stato, gli enti previdenziali, le Regioni e gli enti locali», secondo il report del professor Giarda, mentre è addirittura di 295 miliardi (più di un terzo del totale) la spesa rivedibile nel lungo periodo. «La spesa pubblica italiana è nel suo totale molto elevata per gli standard internazionali e la sua struttura presenta profonde anomalie rispetto a quella rilevata in altri Paesi» si legge nel rapporto. Dai 122 miliardi l'anno di retribuzioni nella pubblica amministrazione, alla bassa produttività degli uffici pubblici (che ha un prezzo di 73 miliardi di euro l'anno), ai 400 milioni di euro spesi per l'affitto di «stazioni periferiche, stabilimenti e magazzini» di polizia, carabinieri e vigili del fuoco, ai 583 milioni di euro di spesa per le prefetture (di cui 463 milioni in stipendi per i 9.541 dipendenti), con incredibili differenze nel costo per abitante da regione a regione: in Molise il costo dei servizi di prefettura è cinque volte più alto che in la Lombardia. Per non parlare della sanità, che assorbe il 37% degli 800 miliardi di spesa nazionale, con un tasso di spreco altissimo, calcolato in 13 miliardi di euro (proprio a causa dei costi impropri e delle inefficenze nell'acquisto di beni e servizi, la stesso intervento, da un intervento di cataratta a un trapianto di cuore, costano un terzo in una struttura privata rispetto alla costo pubblico in una struttura statale). Che fine ha fatto il dossier Giarda?
Oltre a questi 300 miliardi di euro da tagliare o rimodulare ci sono poi i 14 miliardi di euro contenuti in un altro, ennesimo, dossier di spending review. Quello del professor Giavazzi, superconsulente del governo Monti, chiamato a individuare, nell'oceano di fondi pubblici alle imprese, i rubinetti inutili da chiudere.
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