Bersani apre la guerra a Renzi ma i big del Pd marcano visita

Documento dell'ex leader per sbarrare la strada del sindaco verso la segreteria. Però mancano ancora gli sfidanti

Bersani apre la guerra a Renzi ma i big del Pd marcano visita

Documenti, riunioni di corrente, pressing sulle poltrone chiave per il controllo della sfida congressuale: Pier Luigi Bersani è ripartito all'attacco. Con un obiettivo: sbarrare la strada al suo ex competitor Matteo Renzi, allora sconfitto dalla macchina di primarie molto blindate, ma oggi visto da tutti (in testa l'ex giornale di riferimento della candidatura Bersani, la Repubblica, rapidamente riconvertitasi) come l'unica carta vincente per il Pd.

Al fronte bersaniano mancano però alleati certi (anche se gli ex Ppi sono terrorizzati dalla possibilità di perdere i loro spazi di potere se Renzi prendesse il controllo e quindi tratteranno fino all'ultimo con tutti ma si schiereranno col vincente più probabile), e soprattutto manca un candidato alternativo. Roberto Speranza non ha intenzione di perdere una poltrona di primo piano come quella da capogruppo per bruciarsi in una sfida impossibile, Guglielmo Epifani ha chiarito che il suo è un ruolo a tempo, anche se si tenta ancora di convincerlo. Si dice che il segretario sia anche irritato con il suo predecessore per quella foto (autorizzata da Bersani, secondo i maligni del Nazareno) che lo ritraeva con in mano l'appunto sulle nomine pubbliche ricevuto dall'ex segretario. Un modo per dare l'idea che a decidere sia ancora lui, Bersani. E ieri si è sfilato Nicola Zingaretti, solido esponente dell'apparato ex Ds ma anche personaggio di grande popolarità, e indicato come l'artefice, insieme a Bettini, della vittoria di Marino a Roma. Il governatore del Lazio chiarisce che non si candiderà a segretario (se poi si dovesse aprire una partita successiva per la premiership «sarà un altro paio di maniche», dicono i suoi). Ma l'ultimo dei suoi desideri è quello di fare un piacere a Bersani, fornendogli un anti-Renzi: Zingaretti era pronto a fare il segretario se Bersani fosse andato a Palazzo Chigi, ma l'allora candidato premier lo bloccò, pensando di poter mettere al Nazareno qualcuno di meno autonomo e più fidato. E il governatore se la è comprensibilmente legata al dito. L'antipatia è ricambiata: «Quello si candida sempre a tutto e poi scappa», si è lasciato sfuggire Bersani con alcuni deputati Pd.

Ieri comunque l'ex segretario ha scoperto alcune carte e messo sul tavolo un documento pre-congressuale, firmato tra gli altri da Fassina e Martina, entrambi al governo. Il cui succo è ben sintetizzato dallo stesso Bersani: «Un conto è se si discute di premier, e quello lo abbiamo (Letta, ndr). Se invece si discute di segretario, non credo che Briatore - per dire - sia interessato a votarlo. Se poi lo vuol fare, per l'amor di Dio, ma allora si deve iscrivere». Insomma, le regole (quelle con cui proprio Bersani fu eletto) ora vanno cambiate. Niente «acritica difesa del feticcio delle primarie»; niente primarie aperte, su cui conta Renzi, ma ristrette agli iscritti; che devono nominare anche i segretari regionali, cui va dato più potere in un partito «federale». Il documento sostanzialmente dà la colpa della sconfitta elettorale alla Merkel, al governo Monti e all'«antipolitica», e sostiene che solo «il coraggio e la credibilità personale di Bersani hanno arginato l'impatto di un voto di sfiducia e scontento».

«Sembra un testo uscito dalla federazione del Pci emiliano del '76», va giù duro il renziano Angelo Rughetti. «Autocritica zero, analisi politica e elettorale confusa, sulle riforme si dice solo che va difeso lo status quo e che qualsiasi forma di elezione diretta ci porta in Sudamerica. Chissà che ne pensa Obama».

E l'unica «ossessione» bersaniana, rileva, è quella contro «l'uomo solo al comando», ossia contro Renzi. Quanto all'auspicio di un «partito federale» è quello di chi «già sa di aver perso il congresso, e si preoccupa di far contare il vincitore il meno possibile». La guerra è ufficialmente aperta.

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