Bersani vuole arruolare Monti ma non sa che posto trovargli

Difficile pensare a una candidatura al Quirinale dopo la rottura del premier con il Pdl. E come ministro dell'Economia sarebbe troppo ingombrante

Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani con il leader di Sel Nichi Vendola
Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani con il leader di Sel Nichi Vendola

Gli esami di Bersani non finiscono mai. Neppure il tempo di assaporare i fasti delle primarie, di pensare allo «squadrone» di governo e alla poltrona di Palazzo Chigi, ecco che l'uno-due della discesa in campo di Berlusconi con la revoca della fiducia al governo e la contromossa del ritiro annunciato di Monti, hanno fatto crollare il castello di carte che cominciava a prendere forma. Cambia lo schema elettorale, e di conseguenza strategia e uomini. Tanto è vero che la prima reazione d'istinto del leader piddino è stata quella di premere per elezioni nel più breve tempo possibile, così da lasciare poco tempo al Pdl per riorganizzarsi e ai centristi per mettere su le liste pro-Monti.
Il pericolo maggiore infatti per Bersani ora è tornato a essere il premier uscente, che ha credibilità internazionale, autorevolezza interna e spessore intellettuale tale da essere per il Pd «una gran brutta gatta da pelare», come avrebbe confidato il segretario agli intimi. Monti non fa conoscere ancora le carte che ha in mano, e il Nazareno è tutto teso a fargli ponti d'oro pur di averlo nello «squadrone». La soluzione migliore sarebbe il Quirinale, ma dopo la rottura dei rapporti del Professore con il Pdl non è facile far passare la sua come candidatura unanime, con un profilo da «riserva della Repubblica». Tanto più che da qualche anno c'è Romano Prodi a studiare la strada per il Colle, con tutte le scorciatoie possibili e persino con quel tatto «istituzionale» che ne ha diradato del tutto la presenza attiva nel partito e nelle polemiche politiche del Paese.
Allora che farne, dell'ingombrante premier uscente? Immaginare di poterlo chiamare dopo le elezioni al ministero dell'Economia, come se nulla fosse successo, sembra un'ipotesi del terzo tipo, l'irrealtà. Senza contare che un ministro del peso di Monti rischierebbe di far passare Bersani per un premier «ombra», un po' come in quel triste giochino proposto da Occhetto nell'89, dopo la caduta del comunismo. La presenza di Monti sposterebbe inevitabilmente l'asse del governo verso l'omonima agenda di politica economica, che poi è quella che conta, oscurando il profilo della cosiddetta «agenda Bersani» (di cui ancora non v'è traccia) e scoperchiando il gran pasticcio di un'alleanza elettorale con Vendola che si troverebbe invece a fare l'austerità dettata dalla Merkel. Così il leader di Sel ha già fatto sapere che «l'agenda di Bersani non è sovrapponibile a quella di Monti: su questa si fa punto e a capo».
Nel Pd c'è chi pensa - a partire dal segretario - che la soluzione sia piuttosto quella di avere in Monti un «federatore dei centristi», da Casini a Fini a Montezemolo. Prendendo così tre piccioni con una fava: dividere l'area moderata grazie alla competizione tra montisti e berlusconiani in modo da ridure il peso di entrambi; stringere successivamente alle elezioni un patto con il centro «buono», con intenti fissati nero su bianco, isolando il Pdl di Berlusconi sulla destra dello scacchiere; avere nel senatore a vita Monti una risorsa utile - ma con velleità ridotte grazie al metro elettorale (forbice dall'8 al 13 per cento) - per qualsiasi evenienza.

Alternativa a questo progetto sarebbe convincere il Professore a un endorsement per il Pd, come spera l'ala centrista (da Enrico Letta ai renziani, a Veltroni). Per come s'è mosso finora Monti, sarebbe come chiedere a un cavallo di razza di finire da mosca cocchiera. Un po' troppo, anche per le meno illuminate menti del Nazareno.

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