Col decreto Biondi iniziò la caccia al Cavaliere

Berlusconi è finito nel tritacarne del giustizialismo per aver sbarrato la strada alla sinistra e aver messo in discussione i privilegi delle toghe

Antonio Di Pietro durante un'udienza in Tribunale
Antonio Di Pietro durante un'udienza in Tribunale

Il compito di Magistratura democratica dopo Mani pulite sembrava (quasi) esaurito: i semi erano stati piantati in profondità, e ora spettava ad altri - dentro e fuori la magistratura - raccoglierne i frutti. Nacque così quella ideologia «di scorta» che fu poi definita «giustizialismo» con varie colorazioni e denominazioni negli anni: girotondini, arcobaleno, indignati, Popolo viola eccetera. Ma le parole d'ordine erano sempre le stesse: no alla delegittimazione dei giudici, no alla separazione delle carriere di giudice e pm.
Il giustizialismo ha comunque una illustre matrice: nasce direttamente dalle affermazioni del segretario del Pci Enrico Berlinguer che rivendicava al suo partito una purezza genetica ed un Dna al disopra di qualunque altra formazione politica in termini di onestà, rispetto della cosa pubblica. Il pool della procura di Milano fu messo in disarmo, ma se ne celebrarono con onore i fasti (le «magnifiche sorti e progressive» di leopardiana memoria): il Parlamento e l'Europarlamento si riempirono di trionfatori, fino ad arrivare al paradosso di Antonio Di Pietro eletto senatore con l'Ulivo nel collegio elettorale del Mugello, il collegio più «rosso» d'Italia (tanto potè Massimo D'Alema). Del pool, rimasero in magistratura solo Francesco Greco e Piercamillo Davigo: Gherardo D'Ambrosio fu eletto senatore, mentre Gherardo Colombo di lì a poco si dimise e andò a dirigere una nota casa editrice.
Ma un nemico si profilava all'orizzonte: Silvio Berlusconi, alias il Cav. Forza Italia vinse le elezioni del 1994 ma dopo pochi mesi di governo venne lanciata la prima, pesantissima fatwa giudiziaria durante il summit mondiale che presiedeva a Napoli con un avviso di garanzia anticipato dal Corriere della Sera. Il Cav si dimise e dopo un governo di transizione alle elezioni del 1996 vinse il centrosinistra. Nel 2001 un nuovo ribaltone, con vittoria di Berlusconi: nel 2006 vittoria della sinistra. Nel 2008 vince ancora il Cav - sbalzato di sella nel 2011 con modalità che entreranno nella storia dei colpi di stato e nei manuali di Storia contemporanea - e nel 2013 la partita è finita sostanzialmente pari.
In questi venti anni Berlusconi è stato sottoposto ad oltre quaranta procedimenti penali e civili nei più importanti tribunali italiani (Milano in prima fila) e alla fine la tagliola è scattata - come per Craxi - anche per lui.
Non è questa la sede per addentrarsi nella valutazione della correttezza della doppia recentissima condanna - definitiva per frode fiscale, in primo grado nel cosiddetto processo Ruby - ma non si può non rimanere sgomenti per il numero e l'eterogeneità delle accuse che si configurano come una vera e propria persecuzione giudiziaria contro la persona.
Il parallelo con la vicenda di Mani pulite rischia di non tenere più, e per una buona ragione: in quell'occasione il pool milanese dimostrò di muoversi «a colpo sicuro». Per Berlusconi, invece, i magistrati si sono mossi del tutto a caso, sui fronti più diversi, brancolando nel buio: dalla frode fiscale alla collusione con la mafia, dalla rivelazione di atti coperti da segreto istruttorio al favoreggiamento della prostituzione (minorile e non), dalla concussione alla corruzione per atti giudiziari, alla compravendita di parlamentari, secondo il noto principio che «gratta gratta, qualcosa salterà fuori», il che avvalora ancor più la tesi della persecuzione giudiziaria.
La sinistra è vista sbarrare la soglia del potere proprio dalla «discesa in campo» di Berlusconi, che fin dal primo momento non fece mistero di quali fossero le sue intenzioni al riguardo. La magistratura ha visto ripetutamente messa in pericolo la ragnatela di privilegi, economici e non, intessuta grazie al succedersi - negli ultimi quaranta anni - di governi accondiscendenti perché pavidi. Ma l'impresa politica del Cav è un'anomalia del sistema di potere che era stato ideato: qualcosa non era andata secondo le previsioni. Ne sono ben consapevoli sia il Pci-Pds, sia la magistratura nel suo complesso: la magistratura, non Md, che ormai si identificava abbastanza organicamente con il partito di riferimento.
Berlusconi rappresenta un doppio pericolo: impedisce alla sinistra l'accesso alle poltrone di comando e mette in discussione l'autonomia/anarchia della magistratura e più ancora i privilegi di cui godono, ridimensionandone il potere. Scatta dunque la reazione. L'occasione è data dal varo del decreto Biondi che limita agli arresti domiciliari la detenzione per gli accusati di corruzione e concussione.
Come e più del decreto Conso, il decreto Biondi scatenò le ire del pool Mani pulite: in televisione Di Pietro si presentò scarmigliato, con la barba lunga, per leggere un comunicato a nome dell'intero pool, con il quale i pm chiedevano di essere destinati ad altri incarichi. L'opinione pubblica - naturalmente aizzata da giornali di regime, da politici di sinistra e da giornalisti reggicoda - insorse schierandosi dalla parte dei pm. Bruti Liberati (attuale procuratore capo di Milano) dice: «In questo Paese il carcere preventivo è la sola certezza della pena». Cesare Salvi, capogruppo dei senatori Pds: «Berlusconi è riuscito là dove ha fallito Craxi, a far fuori i giudici del pool milanese». Invece il 19 luglio 1994 Giuliano Ferrara fu costretto ad annunciare che il decreto legge sarebbe stato ritirato, come puntualmente avvenne.
Ancora una volta la politica si era piegata all'alleanza Pds-magistratura.

Ma la vera replica (quella che avrebbe intimorito chiunque) non si fece attendere: il 26 luglio i pm milanesi chiedono l'arresto di Paolo Berlusconi per corruzione, arresto eseguito il 28 luglio con la concessione dei domiciliari poi lo scarcerano. Per far capire a qualcun altro cosa avrebbe dovuto aspettarsi.

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