Corona in fuga: se mi prendono voglio morire come Scarface

La telefonata di Fabrizio al suo amico Massimo: "Ma se morissi come Al Pacino diventerei un mito?"

Corona in fuga: se mi prendono voglio morire come Scarface

Milano - «Abbiamo parlato ore e ore. Di lui, della sua situazione, della sua vita, del carcere, del futuro, di suo figlio. Poi all'improvviso, è scoppiato in lacrime. Un pianto dirotto, interminabile. E infine mi ha fatto la domanda che temevo: “Massimo - mi ha detto - ma se io morissi oggi, se mi togliessi la vita o facessi la fine di Scarface, diventerei un mito?“».

Massimo Emilio Gobbi parla piano. Con la rassegnata disperazione di chi sa che l'esistenza di un uomo non è un film. E che, soprattutto, vale molto di più. Cinquantasette anni, ebreo veneziano, una vita intensa, attore nel film «Gomorra» ma anche regista apprezzato, Gobbi si vanta di avere molte relazioni d'amicizia. E una di queste era con Fabrizio Corona. È stato lui l'ultima persona a parlare, giovedì scorso, al 38enne prima che decidesse di darsi alla latitanza. «Conoscevo la sua situazione giudiziaria, ma non sapevo che il giorno dopo, venerdì, ci sarebbe stata la sentenza della Cassazione - spiega Gobbi -. Tuttavia, quel giovedì mattina, quando accendendo il cellulare ho trovato tre sue chiamate, gli ho telefonato immediatamente. Mi disse che aveva un'idea per “Scarface“, il remake del famosissimo film con Al Pacino che avevo cominciato a fargli girare qualche anno prima per poi cacciarlo dal set per il suo caratteraccio. Ma eravamo rimasti uniti, sa? Lui mi considerava uno che aveva vissuto. Mi dava del “saggio“ addirittura. E se doveva prendere una decisione sosteneva che, dopo aver parlato con me, aveva le idee più chiare. “Tu sei un realista Max“ diceva. Ci eravamo conosciuti nel 2004 a casa di Lele Mora. Fabrizio mi colpì perché era dolcissimo con il suo bambino, Carlos».

Avevano dei progetti concreti imminenti insieme Gobbi e Corona. «Per sabato scorso dovevamo incontrarci alla fiera orafa di Vicenza con i titolari di una nota marca di gioielli e sabato 26 era ospite di un ristorante veneziano. Ora so che non lo rivedrò».

«Giovedì quello di parlare di Scarface, l'ho capito subito, era un pretesto: Fabrizio aveva altro in mente, la voce era agitata, l'animo in confusione - prosegue Gobbi -. Così sono arrivato a Milano il più in fretta possibile. E quando sono entrato negli uffici della sua società, la “Social Channel“, in corso Como 5, dopo avermi presentato due sue collaboratrici, siamo rimasti soli. E allora è diventato un fiume in piena. Ha parlato delle sue battaglie giudiziarie, dei suoi errori, persino di quanto gli era costato l'avvocato. “Max, ma se io scappo e muoio sul campo, lo divento o no un mito?“ mi ha chiesto a bruciapelo. Gli ho risposto che di miti morti ce n'erano tanti, troppi. E che, facendo quella scelta estrema, lui sarebbe stato ricordato solo come un gran coglione.

“Ma dove vuoi andare? Sei intelligente, noto: sconta la tua pena, quando esci farai cose belle“ gli ho consigliato. Ma lui, troppo affascinato dall'idea cinematografica della fuga, da Scarface, potrebbe commettere davvero una sciocchezza. Non so dove sia. Ma da quella sera non dormo più».

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