diQuando i giudici emettono una sentenza «in nome del popolo italiano», tutti noi che ne facciamo parte abbiamo il sacrosanto diritto di commentarla e criticarla. Se no, che democrazia sarebbe? O perché nascondersi dietro di noi?
Abbiamo anche l'altrettanto sacrosanto diritto di giudicare noi il lavoro che i magistrati svolgono e di valutare come lo praticano, visto che hanno milioni e milioni di processi arretrati (a parte le volate per quelli di Berlusconi); senza non ricordare che le loro carriere sono garantite da automatismi e scatti d'anzianità e che vengono retribuiti con il denaro da noi versato allo Stato.
Abbiamo, peraltro, il doveroso diritto al sospetto, dal momento che non sono un segreto i magistrati indagati o condannati per corruzione, quelli politicizzati, quelli che competono tra loro; ma anche quelli gossipari e ammalati di visibilità mediatica o i favoreggiatori per istinto.
Mio padre era magistrato e lo è stato fino all'età di 37 anni, quando si è dimesso dopo essere stato pretore, giudice e avere avuto accesso giovanissimo alla procura generale. Ha educato noi figli al culto della Giustizia come pilastro fondamentale della libertà e della democrazia. Sosteneva che un magistrato abbia il dovere di essere imparziale, indipendente e ultra competente. Ha lasciato l'incarico quando, all'inizio degli anni sessanta, l'associazione nazionale magistrati ha cominciato a frammentarsi in correnti di diverso indirizzo politico. Mi ha poi impedito, negli anni ottanta, di accedere al concorso in magistratura, perché mi riteneva non abbastanza emotivamente equilibrata, per potere onorare una professione che richiede l'equidistanza. Se oggi mio padre fosse vivo, morirebbe di dolore constatando il degrado professionale (e per una parte anche morale) della magistratura. Non di tutta, ma indubbiamente di una parte molto visibile. Se non altro per il tradimento che è stato fatto al referendum, quando avrebbe voluto affermare la responsabilità civile dei magistrati.
In un mondo giuridico, dove pure l'idraulico risponde dei suoi sbagli e dove l'assicurazione è obbligatoria per i professionisti, c'è da rimanere increduli e basiti che un giudice o un pm non vogliano assumersi la responsabilità dell'errore, preferendo farla ricadere pro quota sui cittadini che pagano le tasse. Si sono così conquistati il diritto alla fallibilità e all'impunità.
Non dico poi che si debba seguire l'esempio delle parrucche e delle toghe chiuse delle Corti inglesi, ma il look fuori luogo di molti giudici è un'occasione irrinunciabile per manifestare sfiducia obiettiva: come si può avere stima e rispetto per donne sciatte in zatteroni e coi capelli che gridano vendetta o per uomini sgualciti e approssimativi? L'abito non farà il monaco, ma l'istituzione esige la forma. Non si devono poi lamentare i magistrati, facendo inopportunamente le vittime, se diventano oggetto di opinioni severe e se, grazie anche a tutte queste generalizzate mancanze (irresponsabilità, indifferenza, politicizzazione, incuria e incompetenza) perdono la credibilità. A danno, per di più, di tanti magistrati capaci, diligenti e competenti.
Non conta solo il sapere, per deliberare o investigare sul reato. Da un magistrato ci si aspetta un'indole equilibrata, l'aspetto ordinato, il carattere fermo, la psiche non influenzabile. Il concorso per arruolarli dovrebbe comprendere anche queste severe valutazioni, e la formazione successiva dovrebbe dedicare molto tempo a questi temi. Se un giudice si fa le canne, e non ha rispetto del suo ruolo, sarà portato all'indulgenza verso drogati e spacciatori.
In sostanza, perché si torni tutti a onorare e ossequiare la magistratura, c'è l'impellenza che ciascun magistrato capisca che la sua funzione è super partes, che non può confondersi tra tutti gli altri cittadini, che l'autorevolezza muore anche in un paio di scarpe, in un riporto incollato sulla testa o negli occhiali color puffo.
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