Don Gallo, prete burattinaio che guida il sindaco Doria

È il sacerdote veterocomunista il vero uomo forte dietro alla vittoria di Marco Doria. Ora è diventato il beniamino dei salotti chic dopo averli combattuti per decenni

Don Gallo, prete burattinaio che guida il sindaco Doria

Troppo presto per sapere che tipo sia effettivamente il neo sindaco di Genova, il super sinistro Marco Doria. Nell’attesa, vi do un assaggio del mondo che lo sostiene dedicando il ritratto all’artefice della sua vittoria: don Andrea Gallo, la tonaca no global. È stato l’ottantaquattrenne prete di strada genovese a imporre Doria prima al centrosinistra, spedendo i suoi ciompi ad affollare le urne delle Primarie, poi all’intera città che ha setacciato facendo volantinaggio per lui.
Con l’exploit, don Gallo ha monopolizzato l’attenzione cittadina. Da prete anticasta, è diventato il beniamino degli alti papaveri della Lanterna. Tanto li ha provocati che - non potendo frenarlo - se lo sono fatti piacere e ora è di moda. È destino degli antiborghesi essere adorati dai borghesi. Accadde a Guevara che, dopo averne sterminati a mucchi, è finito sulle magliette dei loro figli.
In città, don Andrea è molto popolare. La Repubblica gli offre da anni un pulpito settimanale sulle pagine genovesi. Quando tagliò il traguardo degli ottanta, il governatore ligure, il pd Claudio Burlando, stanziò diecimila euro per festeggiarlo pubblicamente. Questo uso bizzarro di fondi aveva uno scopo: essendo don Gallo il prete dei centri sociali, Burlando se lo teneva buono per prevenire gli agguati degli estremisti. Il don ricambiò la cortesia in uno dei successivi 25 aprile, festa della Liberazione. Si presentò, Borsalino in testa e mezzo toscano tra i denti, stile Humphrey Bogart, salì con Burlando sul palco e, insieme a Gino Paoli (che fu deputato del Pci benché i comunisti jugoslavi gli avessero infoibato dei parenti), cantarono Bandiera rossa, innalzando calici di vini selezionati dal patron di Eataly, quell’Oscar Farinetti, intimo di D’Alema. Perfetto guazzabuglio di preti, mangiapreti, truci nostalgie e vanità. Anche l’anno scorso, per il compleanno, fu replicata una festa al PalaCep con no global, rifondazionisti, popolo viola, Moni Ovadia, Marco Travaglio, Antonio Padellaro, telefonata di Dario Fo, saluti cari di Franca Rame, telegrammi progressisti.
Don Andrea è, dunque, un vetero comunista, aromatizzato al Vangelo. Beghine e pinzocheri lo digeriscono male. Tanto più che ha un’oratoria da suburra. Una volta, arringando i suoi maneschi giovanotti, mentre la polizia sorvegliava la manifestazione, se ne uscì: «Non lasciatevi provocare da quei figli di puttana: se non ci aiutiamo tra noi, qui non ci aiuta un cazzo di nessuno». Nel 2008, a Bologna, dove il sindaco ds Sergio Cofferati aveva fatto il duro vietando alcol, canne, eccetera il don si infilò in un rave party antiproibizionista per proclamare: «Ci hanno rotto i coglioni. Niente birre, niente pizze, non si potrà neanche scopare?». Don Gallo, sia chiaro, è in buona compagnia. Già don Milani aveva come motto: «Stare sui coglioni a tutti, come lo erano i profeti». Il soave don Mazzi polemizzando con la Gelmini disse: «Quelli del governo ci fanno ingoiare merda come fosse rosolio». Contrario agli inceneritori, don Alex Zanotelli espresse il seguente concetto: «Trasformano la merda in oro. Quanta più merda, tanto più oro».
Noto come «prete degli ultimi», don Gallo vagola nottetempo in cerca di diseredati. Quando all’alba rientra nella comunità da lui fondata, San Benedetto al Porto - che da tre decenni ospita tossici, prostitute e trans - vive in una stanzetta con una branda e la porta aperta a chiunque. Una volta che al buio si aggirava tra i carruggi per distribuire preservativi, si sentì chiamare. «Don Gallo, ci dà una mano a caricare il camioncino?», chiese un ceffo mescolato a un gruppo che spostava mobili davanti a un portone. «Certo», fece il don e si dette da fare. «L’indomani seppi - ha poi raccontato - che avevo aiutato una banda a svaligiare un appartamento». E ci rise su. Un giorno si mise in urto con l’allora arcivescovo, Dionigi Tettamanzi, per avere portato delle prostitute albanesi ad abortire da un medico amico. Fu lui stesso a vantarsi, dicendo che era il «male minore». Tettamanzi, che pure è un tollerantone aperto ai confronti religiosi, di culture, eccetera lo rimproverò pubblicamente: «L’aborto è un’azione malvagia e immorale. Non è mai un male minore». Don Gallo fece spallucce.
Peggiore lo screzio che ebbe col successore, il cardinale Tarcisio Bertone. Nel 2003, si presentava un libro, Preti contro, sulle gesta di cinque sacerdoti non allineati, tra cui il Nostro e il parimenti noto don Vitaliano della Sala, entrambi presenti. Si discettava sulle polemiche create dal volume e i possibili ostacoli gerarchici alla sua diffusione. Don Andrea, che Wojtyla lo aveva in antipatia per la sua ostilità alla «teologia della liberazione», sparò: «Se il Papa va avanti così torneremo presto agli anni della censura». Quando seppe, Bertone si avventò sull’incauto con una replica al veleno: «Altro che preti contro! Sono sacerdoti delegittimati da tempo per i loro atteggiamenti anti evangelici, anti ecclesiali e contrari alla loro appartenenza alla Chiesa come pastori di anime». Una scomunica di fatto che a don Gallo non è mai stata tolta anche se lui se ne impipa.
A vent’anni don Andrea sentì la chiamata ed entrò come novizio dai Salesiani. Fu spedito in Brasile e, del tanto che c’era da vedere, si accorse solo delle favelas. A trent’anni prese gli ordini e cominciò a fare danni. Nominato cappellano della Garaventa, riformatorio minorile, inaugurò un nuovo metodo di recupero: liberi tutti di fare quel che volevano. Sul riformatore si abbatté l’ira dei confratelli e gli fu tolta la cappellania. Il don si incappiò di brutto e lasciò l’Ordine con una motivazione letteraria: «Mi impedisce di vivere pienamente la vocazione sacerdotale».
Quando un prete abbandona la Regola e diventa secolare, la palla passa alla Curia. A don Gallo fu data la parrocchia del Carmine, centro di Genova. Il neo parroco fondò subito un gruppo ecclesiale giovanile che guidava attraverso la città inneggiando al Che e a Ho-Chi-Min. Erano gli anni Settanta e sbornie del genere all’ordine del giorno. Che il protagonista fosse però una tonaca, faceva discutere. In Curia, sedeva Giuseppe Siri, fiero conservatore. Il cardinale ebbe un travaso di fiele. Fece convocare lo sbrindellone e un incaricato gli consegnò un decreto con l’ordine di trasferirsi, seduta stante, nell’Isola di Capraia. Con la pergamena in mano ancora fresca d’inchiostro, don Andrea fece due conti, decidendo all’impronta che era meglio andare a Canossa che a Capraia. Si tolse il mezzo toscano di bocca e si presentò contrito da Siri. Fu perdonato e ha continuato per mezzo secolo a fare come voleva.
Si batte per la marijuana libera. Ha incoraggiato gli inquilini di un centro sociale a coltivare le note foglioline, dicendo: «Ragazzi, ho studiato le Sacre Scritture e ho saputo che Noè, nell’arca, aveva una piantina di cannabis». È un sostenitore della stanza del buco dove ci si fa di eroina e coca in piena tranquillità.

Per promuovere queste belle battaglie o è ospite di Rifondazione comunista (di cui è affezionato elettore) oppure ospita lui i rifondazionisti nella parrocchia di San Benedetto. Sono occasioni conviviali in cui ciascuna parte cerca di fare proseliti e si mescolano disinvoltamente paradisi artificiali e Paradiso celeste. Questo è don Gallo, l’antipasto del neosindaco Doria.

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