Grazie a un trucco i deputati pagano solo il 18% di tasse

Grazie a un incredibile escamotage versano la metà delle imposte di un manager

Grazie a un trucco i deputati pagano solo il 18% di tasse

Ma se usassero sempre l'inarrivabile creatività riservata ai loro listini paga, che grande Paese sarebbe questa Italia? Se davvero gli onorevoli, una volta arrivati nelle aule parlamentari di Stato e Regioni, sfoderassero la metà della metà di questa magistrale abilità contabile, in quale magnifico Eden vivremmo noi e i nostri figli? Perché si fa presto a dire casta e privilegi e stipendi e vitalizi d'oro: quelli sono evidenti, di quelli sappiamo quasi tutto, su quelli ormai applicano manovre prudenziali persino loro, consapevoli che non si possa tirare la corda oltre certi limiti. È proprio oltre questi limiti che bisogna per forza entrare nel magico mondo dei trucchi sopraffini, sommersi e sottotraccia, che nessuno nota, alla portata di pochissimi. Ma per fortuna questi pochissimi esistono e fanno benissimo il loro mestiere. Di sentinelle e di fustigatori. Uno dei più affidabili è sicuramente Stefano Livadiotti, che nei suoi articoli sull'Espresso e nei suoi libri-inchiesta esercita senza tregua il ruolo del mastino. L'ultima segnalazione è una vera gemma: con perseveranza e acume investigativo ci rivela quanto possa essere sofisticato e geniale l'acume fiscale degli onorevoli italiani. Rapida sintesi in anteprima: riescono a pagare la metà delle tasse di un umano normale. Aliquota del 18,7 per cento. Wow. Tu chiamale se vuoi, detrazioni.

Non basta più lavorare sulle entrate, si sono detti i parlamentari di tutti gli orientamenti (su questi temi, le intese non sono larghe: sono larghissime). Se sulle entrate non si può più incidere per non diventare spudorati, tutti al lavoro sulle uscite. Meglio: sulla materia fiscale. Cioè su quelle voci che alla fine possono fare la fortuna o la miseria di qualsiasi stipendio. Livadiotti ci mette mano e alla fine li stana. Alta acrobazia: non ci sono altri vocaboli per definire gli espedienti escogitati dalla casta per le sue stesse buste paga. Un capolavoro. Né più, né meno.

Per apprezzare fino in fondo la qualità dell'opera d'arte, basta mettere a confronto le cifre di un parlamentare e di un pari grado - facciamo un manager - che operi in un'azienda privata. L'incasso annuale lordo è di 235.615 euro (ma riconosciamolo, una volta buona: può un parlamentare tirare avanti con la miseria di 235.615 euro l'anno, con tutti i bottoni che deve schiacciare?). Partendo da una cifra già così limata, è chiaro che non si può pretendere poi di falcidiarla pure con una tassazione impietosa. Ed è qui che interviene una provvidenziale normativa, diciamo così d'emergenza, per limitare i danni.
Mentre il manager privato dovrà pagare sui 189.431 euro di base imponibile (dopo le ritenute pensionistiche e sanitarie) il 39,4 per cento di Irpef, cioè 74.625 euro, portandosi a casa 114.806 euro netti, il suo equivalente parlamentare pagherà il 18,7, cioè 35.512 euro, meno della metà, mettendosi in tasca 153.919 euro netti.

Mistero? Magia? Non c'è niente di paranormale. Con la sola imposizione delle mani, la casta è riuscita semplicemente a inventarsi il colpo di tacco che mette a sedere tutti gli ideali di equità. Come spiega Livadiotti, «è un'interpretazione alquanto generosa dell'articolo 52, comma 1, lettera b, del Tuir» (non a caso sembra un algoritmo: l'algoritmo della furbizia)», grazie alla quale non fanno reddito le somme incassate a titolo di rimborsi spese, che per il parlamentare hanno varie forme, come diaria, trasporti, telefono. Basta travestire le entrate da rimborsi, e che ci vuole per vivere felici?
Magari è fatica seguirli su cifre, percentuali e cavilli.

Gli italiani difatti malvolentieri si avventurano nella nebulosa della finanza politica. È complessa, è vaga, è ostica. Ma in fondo anche questo è un altro capolavoro della casta: diventare incomprensibile, cioè inviolabile.

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