Guerra al regno di Filettino. È la secessione all'italiana

Il commissario prefettizio vieta la festa in piazza al paese che si proclama principato. Così lo Stato reprime ogni autonomismo. Anche se folcloristico

L'ultima guerra di secessione l'Italia la combatte su un campo piuttosto ristretto. Il teatro della lotta misura pochi metri quadrati, è la piazza del paese di Filettino negata dal commissario prefettizio per la festa del «principato», tra diatribe, discussioni e levate di scudi. Ma perché una festa di Paese è in grado di accendere la miccia delle scontro? La battaglia sulla celebrazione del principato è solo l'ultimo atto di una guerra iniziata un anno fa, quando su Filettino - paese nel frusinate che conta 400 anime d'inverno e 12mila d'estate - gravava la minaccia di un possibile accorpamento con uno dei paesi vicini. In difesa dell' autonomia paesana l'allora sindaco Luca Sellari se ne uscì con una dichiarazione che ai più sembrò una provocazione: «Diventeremo un principato». A un anno di distanza, tra la curiosità dei media e le critiche dei detrattori, il principato di Filettino è un'associazione che porta avanti la sua battaglia sotto l'egida di una propria bandiera, dopo aver coniato una propria moneta - battezzata il Fiorito - e appoggiato la corona di principe reggente sulla testa del penalista Carlo Taormina.

Ora però la prima festa del principato rinverdisce le polemiche, con il commissario prefettizio che nega l'autorizzazione per l'occupazione del suolo pubblico, perché la nuova istituzione «è inesistente». E a poco è servito che Luca Sellari abbia fatto notare che il principato è un'associazione per la quale «non si può motivare un diniego». Il commissario è stato irremovibile: la festa non s'ha da fare.

Ma la battaglia di Filettino è solo l'ultimo braccio di ferro che vede da una parte tentativi più o meno folcloristici di creare micronazioni e dall'altra reazioni durissime dello Stato. Ne sa qualcosa l'ingegnere Giorgio Rosa, protagonista di un'avventura nata al largo delle coste di Rimini: nel '68 progettò e costruì la sua utopia in mezzo al mare, una struttura di tubi in acciaio saldati a terra e appoggiati sul fondale. La piattaforma, collocata fuori dalle acque territoriali italiane, fu battezzata Repubblica Esperantista dell'Isola delle Rose e l'ingegnere scelse lo stemma, proclamò l'esperanto lingua ufficiale, e fissò il valore della valuta locale, i mills. Nonostante l'entusiasmo, l'epilogo non fu felice: 55 giorni dopo la dichiarazione d'indipendenza una decina di pilotine della polizia con agenti della Digos, dei carabinieri e della Guardia di Finanza circondarono la piattaforma e se ne impossessarono. Fu l'inizio della fine per l'isola dell'utopia: lo smantellamento durò una quarantina di giorni e Giorgio Rosa fu costretto a ritirarsi nella sua Bologna con le pive nel sacco. Da quando la piattaforma è stata affondata, a Rimini non è più voluto tornare.

Una sorte analoga è toccata alla Repubblica Indipendente di Malu Entu, proclamata nel 2008 sull'isola di Mal di Ventre al largo di Oristano. L'indipendentista sardo Salvatore Meloni prese possesso dell'isolotto e vi issò la bandiera. La cerimonia, seguita al largo da un gommone della Polizia e da una motovedetta della Guardia Costiera, non fu beneaugurante: dopo 5 mesi dall' autoproclamazione della Repubblica, un blitz del Corpo Forestale e di Vigilanza Ambientale e della Capitaneria di porto fece sgomberare gli indipendentisti.
E nemmeno la bandiera del Leone sul campanile di San Marco ha portato bene ai «serenissimi» che nel 1997 occuparono la piazza. La «Veneta serenissima armata» voleva affermare l'illegittimità dello scioglimento della Repubblica di Venezia, ma dopo l'intervento dell'esercito, l'unica cosa che riuscì a rimediare fu l'arresto e una serie di condanne per attentato all'unità dello Stato, e per interruzione di pubblico servizio: le pene comminate arrivano ai 5 anni di carcere e la richiesta di grazia è stata sempre ignorata, anche se l'episodio avrebbe potuto essere liquidato come una manifestazione goffamente rude.

Che ci si accapigli per episodi folkoristici, feste paesane, o magnifiche utopie, la risposta dello Stato è sempre dura. L'ultima prova che, mentre la politica discute di secessione e federalismo, l'apparato burocratico, dai prefetti ai magistrati, è schierato compatto a difesa di un centralismo che non prevede crepe.

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