L’analisi

Cosa succede in Afghanistan? Perché i nostri soldati sono quotidianamente sotto tiro? Per capirlo basta guardare calendario e cartina. La data fatale è quella delle elezioni presidenziali del 20 agosto. Il territorio cruciale, la nostra ultima trincea, sono i deserti e le montagne di Farah, la più calda e turbolenta delle quattro province sotto il nostro comando. Da qui al 20 agosto Farah resterà un inferno, un incubo quotidiano fatto di trappole esplosive, d’attentati suicidi e di imboscate. La partita afghana non concede del resto esitazioni. Se i contingenti stranieri e l’esercito afghano non garantiranno il regolare svolgimento delle elezioni sulla maggior parte del territorio, i talebani potranno vantarsi di aver inferto un primo duro colpo a quella strategia di «rimonta» auspicata da Barack Obama e dalla Nato.
A Farah garantire questi obbiettivi è molto più difficile che a Herat, Ghowr e Badghis, le altre tre province sotto il nostro comando. «Qui appena esci dalla base rischi, qui un uomo solo è un uomo morto», spiegava un capitano degli incursori al comando del distaccamento di forze speciali italiane nell’area. La posizione geografica parla ancor più chiaro. La provincia di Farah, grande due volte la Lombardia, confina ad est con Helmand, il nuovo regno talebano dove è in corso l’offensiva di quattromila marines americani. Quell’operazione spinge molti gruppi di insorti nelle zone di Farah, portandoli a contatto con i militari italiani. Il controllo di quel passaggio a ovest è fondamentale ai talebani anche per garantire il trasferimento dei raccolti di Helmand, principale bengodi dell’oppio, e di quello di Farah, quinta grande cornucopia della narcoabbondanza afghana. Per far arrivare quel ben di Dio alla frontiera iraniana e scambiarlo con armi e contanti, i talebani devono farsi largo tra i militari italiani e il resto del contingente internazionale. Ad agevolare gli insorti, rendendo quasi impossibile la missione dei nostri, contribuisce l’esiguità delle forze a disposizione. Mettendo insieme spagnoli, lituani e sloveni il comando italiano può contare su un totale di tremila uomini, corrispondenti a non più di 600/800 truppe combattenti. Nulla per un settore vasto quanto l’Italia del nord. A rendere tutto più complesso contribuiscono l’inefficienza di un esercito afghano lontano dal garantire la sicurezza, e l’inaffidabilità di poliziotti mal pagati e quindi spesso collusi con il nemico.
Il tragico episodio di ieri è la sintesi di tutte queste difficoltà. La colonna guidata dal blindato Lince con il caporalmaggiore Alessandro Di Lisio rientrava dopo aver presidiato una caserma in costruzione che esercito e polizia da soli non riuscivano a difendere.

Un trasferimento quotidiano di 50 chilometri lungo territori infidi e percorsi inevitabilmente ripetitivi, per garantire la nostra assistenza a dei soldati afghani ancora da formare e a dei poliziotti già abituati a tradire.

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