Non serve, siamo già iper-garantite

La Corte europea di Strasburgo ha imposto all'Italia di introdurre, entro tre mesi, un articolo di legge, o di riformare quello in vigore, affinché i figli abbiano il diritto di ricevere anche o solo il cognome materno. Questa Corte, istituita nel 1959 dalla convenzione europea per la «salvaguardia dei diritti dell'uomo», ha dato invece un altro carico da undici al potere (...)

(...) che stanno ogni giorno di più conquistandosi le donne, da quando è diventato legge operativa il principio costituzionale della pari dignità dei sessi. È vero che la disciplina italiana dell'attribuzione del cognome al figlio si discosta dagli altri Paesi europei; è vero che può apparire retaggio della desueta visione patriarcale della famiglia; è vero anche che contrasta con gli articoli 2 e 3 della Costituzione, perché viola il diritto all'identità personale del cittadino di vedersi identificato con entrambi i rami genitoriali e perché non solo contrasta con il diritto di uguaglianza e pari dignità sociale dei genitori verso i figli, ma anche con il diritto di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Su queste premesse incontestabili, bene ha fatto la Corte a condannare l'Italia. Tuttavia, pensiamo allo strapotere della donna nella relazione sessual-sentimental-procreativa con l'uomo e chiediamoci perché non si provveda con urgenza a «salvaguardare l'uomo», più ancora dei suoi diritti, dall'evidente discriminazione e debolezza personale che ne emerge. È la donna, infatti, che decide - ovviamente in un rapporto normale e non di violenza - se e quando generare un figlio; se assumere o no la pillola; se dire la verità in proposito; se far riconoscere, e quando nel tempo, il figlio dal padre; se abortire, fare la madre, a tempo pieno o ridotto, o dare il figlio in adozione non riconoscendolo alla nascita. E tutto questo anche contro la volontà del malcapitato padre. Il quale sventurato, anche dopo 20 anni, può essere chiamato in Tribunale per riconoscere un figlio di cui mai ha saputo l'esistenza e, se rifiuta la prova del Dna, essere dichiarato padre in nome della legge, regalare il proprio cognome, pagare gli arretrati del mantenimento, rivedere il proprio asse ereditario, e risarcire il figlio dell'affetto non profuso nel tempo dell'inconsapevolezza.

In conclusione, cara Corte a salvaguardia dei diritti dell'uomo, prima di prescrivere nuove leggi, non sarà il caso di valutare come funzionano quelle esistenti? Se il diritto dei figli alla bigenitorialità vale per il cognome, perché non dovrebbe valere quando la madre decide di non far nascere un bimbo che il padre vorrebbe vivo? E perché una madre può rivelare il padre al figlio, impunemente dopo vent'anni di monogenitorialità, e il Tribunale le dà sempre ragione? Perché la legge evidentemente non è uguale per tutti e i diritti pesano ormai a favore delle donne. A tal punto, che hanno perfino rotto i cognomi.

di Annamaria Bernardini de Pace

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