Oscar Luigi Scalfaro, il presidente "per disgrazia ricevuta"

In piena commemorazione per l'attentato a Falcone, Andreotti deve rinunciare alla sua ambizione di diventare Capo dello Stato: Scalfaro è eletto al sedicesimo scrutinio il 25 maggio 1992

Oscar Luigi Scalfaro, il presidente "per disgrazia ricevuta"

"Saranno giorni terribili fino all'elezione del mio successore". La previsione di Francesco Cossiga, quando si dimetterà con due mesi di anticipo da Presidente della Repubblica, si rivelerà più che mai azzeccata. Dopo le elezioni politiche terremoto del 6 aprile 1992 (il quadripartito che sostiene il VII governo Andreotti esce con le ossa rotte) la costruzione del nuovo governo "deve" diventare – per mere questioni di opportunità – affare di un Capo dello Stato eletto dal Parlamento che si è appena insediato. Ma il percorso per designare il nuovo inquilino del Palazzo del Quirinale il 25 maggio 1992 sarà il più travagliato che la storia della Repubblica abbia mai attraversato.

Forlani non raggiunge il quorum

Quando il 13 maggio il Parlamento si riunisce in seduta comune sotto la guida del neopresidente della Camera, Oscar Luigi Scalfaro, e comincia a votare, i sospetti incrociati fra i partiti sono tali che Pannella chiede al numero uno di Montecitorio di garantire la segretezza del voto. Scalfaro, a tempo di record, fa allestire dai falegnami di palazzo due cabine di legno foderate con un drappo rosso, subito ribattezzate "catafalchi" da Francesco Rutelli. Nei primi tre scrutini, quelli con maggioranza dei due terzi, ciascun partito opta per il proprio candidato di bandiera. Poi, dalla quarta votazione, scendono in campo i big.

L'accordo del Caf Craxi-Andreotti-Forlani prevede che il primo torni a Palazzo Chigi, mentre gli altri due se la vedano fra loro per il Colle. Si parte col segretario Dc, Arnaldo Forlani, che al quinto scrutinio prende 479 voti e al sesto sale a 496, vicinissimo al quorum dei 508. Ma dal sesto scrutinio viene impallinato dai cecchini del suo partito e dei cosiddetti alleati. Dopo il suo ritiro, il 17 maggio, sembra il gran giorno di Andreotti, ma i forlaniani sono tanti e non ne vogliono sapere, preoccupati dallo strapotere del Divo Giulio. A quel punto non resta che una soluzione istituzionale: uno dei presidenti delle Camere, o Spadolini o Scalfaro. Per il secondo si spende molto Pannella, in nome di un ritorno alla Costituzione picconata da Cossiga.

La strage di Capaci mette fine all'empasse

Nel pomeriggio di sabato 23 maggio, mentre partiti e correnti si dilaniano sulla scelta del nome, arriva una tragica notizia da Palermo: il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i cinque agenti della scorta sono rimasti vittime di un attentato mafioso sull'autostrada Punta Raisi-Palermo, in località Capaci. Andreotti si ritira dalla corsa. De Mita, presidente di una Dc priva ormai del suo segretario appena dimesso, preferirebbe Spadolini, ma ad azzoppare il repubblicano ci sono le ultime notizie dal Palazzo di Giustizia di Milano piena Mani Pulite: Giacomo Properzj del Pri viene arrestato; un altro esponente dell'Edera, Antonio Del Pennino, è indagato. A sbloccare l'impasse provvede il Pds, disposto a votare Scalfaro fin subito. "Se non l'avessimo votato - dirà Massimo D'Alema - gli altri prima o poi avrebbero ritirato fuori Andreotti". E così, quel 25 maggio, la sedicesima fumata è bianca: il vicepresidente Stefano Rodotà annuncerà la sia elezione con 672 voti su 1002. Oscar Luigi Scalfaro diventa così il nono presidente della Repubblica, con un'amplissima maggioranza di centrosinistra: Dc, Psi, Psdi, Pli, Pds, Verdi, Radicali, Rete.

Scalfaro e quel ceffone alla nobildonna

Nato a Novara nel 1918, figlio di un impiegato delle Poste di origini calabresi, magistrato, padre costituente, fedelissimo di De Gasperi e Scelba, vicino alla destra democristiana, più volte sottosegretario, ministro dell'Interno nel governo Craxi, vedovo da molti anni, sempre accompagnato dall'inseparabile figlia Marianna, Scalfaro è sempre stato considerato un "moralista". Nel 1950, ad esempio, apostrofò in un ristorante romano una nobildonna, Edith Mingoni Toussan, per una scollatura troppo generosa ("Non si va al ristorante in prendisole") e c'è chi giura che le assestò addirittura un ceffone. Quando Scelba lo nominò viceministro allo Spettacolo, con il compito di censurare e purgare i copioni teatrali e le sceneggiature cinematografiche, qualcuno lo soprannominò "sottosegretario al Pudore".

Indro Montanelli - che pure lo stima - non risparmia frecciatine al suo leggendario bigottismo, salutandolo così la sua elezione su Il Giornale: "Sappiamo di non scoprire la polvere dicendo che a issare Scalfaro al Quirinale non sono stati i mille grandi (si fa per dire) elettori di Montecitorio, ma i mille chili di tritolo che hanno massacrato Falcone, la moglie e il suo seguito. Sono stati gli eventi, non i partiti a portarvelo. Per la prima volta abbiamo un presidente che non è figlio della politica - come la si intende e miserevolmente si pratica in Italia - ma di qualcosa di più serio: la ragion di Stato. Se non l’uomo della provvidenza, certo l’uomo dell’emergenza: un presidente per disgrazia ricevuta".

Ben cinque governi durante il suo settennato

Il suo primo impegno sul Colle è la scelta del nuovo premier. Con Craxi che sta per finire indagato a Milano, è Giuliano Amato a venire incaricato presidente del Consiglio. Dopo di lui, saranno ben cinque i governi che giureranno nelle mani di Scalfaro: Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi e D'Alema. Nel suo settennato, tanti saranno i no: come quello alla depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti, a Craxi di nuovo a Palazzo Chigi, a Previti ministro della Giustizia, alle elezioni anticipate nel '95 dopo il ribaltone di Bossi. "La vita al Quirinale è una spaventosa e solitaria traversata, ma per fortuna ogni giorno che passa è uno in meno da trascorrere qui dentro", dirà in un momento di sconforto. Nel 1999, una volta conclusa l'esperienza sul Colle, l'Economist lo saluta con questo titolo: "Scalfaro, la bambinaia che non serviva all'Italia".

Proprio lui, che sicuramente avrebbe fatto a meno di svolgere un ruolo da "baby-sitter politico", nel pieno del marasma del passaggio da prima a seconda Repubblica, perché: "A questo gioco al massacro io non ci sto".

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