È bene di questi tempi ricordare alcune voci più recenti e autorevoli della Germania. Da Helmut Kohl che di Angela Merkel dice: «Sta rovinando la mia Europa» a Jürgen Habermas: «Non è nel nostro interesse nazionale ricadere in una posizione egemonica che ha preparato per due volte la via a guerre mondiali». Da Helmut Schmidt: «L'attuale situazione dell'Europa mi spinge al pessimismo. Non è scritto in nessuna Bibbia che l'Unione europea com'è adesso arriverà a vivere la fine del secolo. Può frantumarsi, perché i capi dell'esecutivo non hanno capito la serietà della situazione, neanche a Berlino» a Joschka Fischer: «Il punto decisivo dell'abdicazione tedesca è stato quando la Merkel ha detto che ogni Paese in questa crisi deve fare da solo i compiti a casa». A Ulrich Beck: «Non è possibile che un Paese, sia pure forte e rispettato come la Germania, decida il destino di un altro, mettiamo la Grecia. Il multilateralismo si è trasformato in unilateralismo, l'eguaglianza in egemonia, la sovranità in dipendenza».
Una ben più drammatica musica rispetto a quella di commentatori come Michele Salvati, Gian Enrico Rusconi, Antonio Polito, Angelo Bolaffi, Lorenzo Bini Smaghi, Giacomo Vaciago capaci solo di peana alla resa allo stato di necessità, all'euro così com'è, all'inevitabile egemonia di Berlino. Pensiero questo che si adatta alla piccola mentalità euroburocratica di un Martin Schulz che al contrario dei grandi della socialdemocrazia tedesca, non sente la drammaticità del presente e come la Merkel si trasforma in un maestrino che il tragico passato novecentesco rende insopportabile.
Lo stato di cose attuale non porta da nessuna parte: da un lato prepara destini di stagnazione economica più disgregazione politica, dall'altro rende gli Stati europei ininfluenti sulla scena internazionale. Questi temi sono centrali nelle elezioni del 25 maggio. In Italia Matteo Renzi rispetto ai vari maggiordomi dell'influenza di Berlino (da Mario Monti a Enrico Letta fino a Pier Carlo Padoan) coordinati da Giorgio Napolitano, rappresenta una novità anche per i suoi legami con la finanza globale e con ambienti statunitensi e mediorientali. Ma proprio per le sue basi più «esterne» che interne e per la fragilità di quelle nazionali, l'ex sindaco di Firenze è solo la «possibilità» di aprire un nuovo corso non la sua concreta determinazione come sostiene un certo cretinismo renzista assai diffuso.
Ecco perché alla fine le speranze di una ripresa di ruolo nazionale poggiano ancora su un vecchio combattente settantasettenne come Silvio Berlusconi, colpito da infinite persecuzioni giudiziarie, che ben lungi dall'esprimere una pura protesta fiscale come vorrebbe la scomposta vulgata gallidellaloggiascamente ammanita, rappresenta l'unico nucleo di autonomia nazionale espresso nel dopo 1992, quando la crisi dello Stato ha teso a ridurre i partiti a nomenklature subalterne: ultimi, di questa genia, gli alfanoidi. Non so se avete visto The Last Stand, un film del 2013, in cui il povero Arnold Schwarzenegger interpreta uno sceriffo segnato dall'età costretto allo scontro finale con un boss messicano. Berlusconi ricorda molto questo personaggio, l'antico combattente impegnato ad accettare l'ultima battaglia perché l'autonomia nazionale è considerata negli «ambienti che piacciono» questione ininfluente facendo così impazzire un elettorato che piuttosto di accettare questo stato di cose, si suicida votando per Beppe Grillo.
Un'estrema sfida non è un pranzo di gala e le battute per raggiungere un pubblico stordito hanno sapori piccanti. Di fronte a qualche uscita rude berlusconiana abbiamo assistito alla solita insurrezione degli snobbetti che alternano i linciaggi travagliesco-crozziani alla ispirata meditazione spinoziana, e oggi deplorano certi toni lievi nell'affrontare temi tragici.
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