Quel piano di Passera che ci ha rovinati

Nell'estate del 2011, il futuro ministro con l'ok di Re Giorgio pianificava le stangate dei governi post Berlusconi

Quel piano di Passera che ci ha rovinati

Roma - Cautissimo sui tagli della spesa pubblica e riforme del lavoro; guanti di velluto con i poteri forti, banche e sindacati. Poi, per le famiglie, patrimoniale e tasse sulla casa. Negli ultimi tre anni Giorgio Napolitano non ha utilizzato il tempo extra-consultazioni solo per sondare «risorse» umane da destinare a Palazzo Chigi. Dal Quirinale sono arrivati segnali sparsi che, messi insieme, costruiscono una politica economica organica. A ben guardare, la stessa messa in pratica dai governi Monti e Letta. Un pezzo importante di Napolitanomics è emersa un paio di giorni fa dal documento che Corrado Passera inviò a Napolitano tra l'estate e il novembre del 2011.

Gli Appunti per un piano di crescita sostenibile per l'Italia prevedono, tra le altre cose, una maxi patrimoniale. Un prelievo del 2% su tutte le ricchezze, mobiliari e immobiliari, degli italiani per una cifra monstre di 85 miliardi di euro. Esclusi, nel piano di Passera, i conti correnti, i titoli di stato e la prima casa, che però viene colpita con un ritorno dell'Ici, che ai tempi del documento era appena stata abolita. C'è anche un aumento dell'iva al 23%.

La maxi patrimoniale, almeno per il momento, non è diventata legge, ma il resto del piano è stato in gran parte attuato. L'aumento dell'Iva si è fermato al 22% e l'Ici-Imu ha cambiato nome ma è stata confermata in versione rafforzata da Letta.
Quel piano era farina del sacco dell'ex amministratore delegato di Poste e di Intesa San Paolo, si potrebbe obiettare. Fatto sta che molti dei punti salienti del documento sono sopravvissuti alle sorti politiche del manager che li aveva messi nero su bianco per Napolitano.

Impossibile, poi, ignorare come i governi Monti e Letta abbiano assecondato più volte la moral suasion del Quirinale su temi economici. Se ne parlò agli esordi da ministro del Lavoro di Elsa Fornero. La professoressa con fama di lady di ferro riformista, stupendo molti, stabilì da subito un legame privilegiato con la Cgil, sindacato che negli anni si era autoescluso da ogni riforma. Frutto, si disse allora, del pressing di Napolitano, da sempre sensibile alle ragioni del sindacato della sinistra. Un idillio del quale si parlava da tempo. Almeno dal marzo 2010, quando il capo dello Stato rinviò per la prima volta una legge alle Camere: era un ddl del governo Berlusconi che rafforzava il ruolo della conciliazione e dell'arbitrato nelle vertenze di lavoro, a scapito dell'articolo 18. Il rapporto Napolitano-Corso d'Italia si incrinò solo nel marzo 2012, quando la leader Cgil Susanna Camusso ruppe su un'altra modifica che toccava il tabù dell'articolo 18. Quella volta Napolitano si schierò con il governo. Che però era quello Monti.

La Napolitanomics, non comprende tagli drastici alla spesa pubblica. Sui risparmi il Quirinale è sempre cauto e gli ultimi due governi hanno assecondato volentieri questa prudenza.

Piano con le regioni, che «non vanno liquidate» e anche con i comuni che devono vivere bene e incassare tutta l'Imu. Le cronache riportano più dichiarazioni del Capo dello Stato in difesa di altri centri di spesa meno importanti. Ad esempio Napolitano nel 2012 si scagliò contro tagli «inconcepibili» all'Agenzia spaziale italiana. La stessa agenzia oggi è sotto la lente della Procura di Roma.

Sui grandi temi il Quirinale è stato defilato, ma qualche uscita dà la misura delle sue priorità. Molto sensibile ai temi del lavoro, affrontati con le ricette del XX secolo, ma anche alle ragioni delle grandi aziende.

Industriali, come la Fiat. O finanziarie. Ad esempio quando chiese alla stampa maggiore riservatezza sul caso Mps. A ben guardare, insomma, la Napolitanomics, sembra molto la linea del vecchio Pci e dei partiti che lo hanno sostituito.

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