Sette «latinos» su dieci, nove neri su dieci e sei elettori di origine asiatica su dieci hanno votato per Obama, mentre il 60% e forse più dei bianchi ha scelto lo sconfitto Romney: così la nuova America multietnica ha prevalso non solo su quella antica dei Wasp, ma anche su quella della vecchia immigrazione europea, italiana, irlandese, tedesca, polacca. La recente evoluzione demografica degli americani (destinata ad accentuarsi nei prossimi anni sia a causa della maggiore prolificità dei gruppi vincenti, sia dell'intenzione di Obama di legalizzare buona parte dei dieci milioni di immigranti illegali dall'America latina) ha avuto una parte determinante nella conferma del presidente e sta modificando in forma permanente i vecchi equilibri politici.
Ma, oltre a consentire a Obama altri quattro anni di tempo per completare il suo programma, essa comporta una rivoluzione culturale destinata col tempo a fare somigliare sempre di più gli Stati Uniti alla vecchia Europa. Almeno fino al 2008, quando Obama ottenne il suo primo mandato, la maggioranza degli americani credeva nel libero mercato, nella responsabilità individuale e nello Stato minimo e si opponeva tenacemente perfino a un sistema sanitario che coprisse tutti i cittadini. Il loro eroe era Ronald Reagan, il cui slogan preferito era «Lo Stato è il vostro vero problema» e che, nonostante gli oneri della guerra fredda riuscì ad abbassare la pressione fiscale. Oggi, il nuovo blocco vincente sembra disposto ad accettare un ruolo crescente del governo federale nella gestione dell'economia e nella creazione di nuovi posti di lavoro, favorisce una politica sociale che riduca le differenze tra le varie classi e non si oppone neppure all'intervento pubblico in aiuto delle aziende e delle banche in difficoltà: la vittoria di Obama nello stato-chiave dell'Ohio, per esempio, è dovuta soprattutto al contestatissimo salvataggio (con soldi del contribuente) dell'industria automobilistica. Molto indicativo è anche che la maggioranza di coloro che ritengono che la disoccupazione, oggi al 7,8%, sia il principale problema del Paese abbia votato egualmente per Obama, e che solo un decimo degli elettori si sia lasciato influenzare dal fatto che, per effetto delle politiche interventistiche dell'amministrazione democratica, deficit federale e debito pubblico abbiano toccato livelli mai prima raggiunti in tempi di pace e stiano - secondo i pessimisti - spingendo perfino la ricca America verso la bancarotta.
Nella società americana ci sono, tuttavia, ancora poderosi anticorpi in grado di fermare quella che i repubblicani, soprattutto nei Tea Party, chiamano la «deriva socialista» del presidente. L'opposizione ha mantenuto senza difficoltà il controllo del Congresso, conquistato nel 2010, e sarà pertanto in grado di obbligare il presidente a scendere a patti sulla politica di bilancio. Durante la campagna elettorale, tutti i tentativi di trovare una formula di risanamento della finanza pubblica accettabile a entrambi i partiti sono naufragati, e se un accordo non verrà trovato entro il primo gennaio una combinazione di aumento delle tasse e tagli della spesa - definita appropriatamente «precipizio fiscale» - potrebbe sprofondare il Paese in una seconda recessione. Consci del problema, sia Obama sia Romney hanno auspicato, nei loro interventi postelettorali, una maggiore collaborazione tra i partiti.
Per ora i democratici, confortati anche dagli orientamenti dell'elettorato, insistono che il deficit debba essere ridotto soprattutto da un aumento della tasse per i ricchi, mentre i repubblicani puntano su un «dimagrimento» dello Stato sociale, ma un compromesso è inevitabile.
Almeno per il momento, Obama dovrà perciò attenuare un po' quella corsa al «cambiamento» che lo portò alla vittoria nel 2008. Tuttavia, la rivoluzione culturale già avviata subirà solo una battuta d'arresto e, specie se il Paese riuscirà ad uscire dal tunnel grazie alla linea politica attuale, diventerà permanente.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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