L’infelice Palermo rischia di tornare tra le grinfie di Leoluca Orlando, l’ex sindaco degli anni ’80 e ’90 dello scorso secolo che pare voglia ricandidarsi primo cittadino. Leoluca contesta la vittoria alle primarie del Pd di Fabrizio Ferrandelli, outsider e ribelle dell’Idv (lo stesso partito di Leoluca), che ha battuto di poco Rita Borsellino, candidata ufficiale della triade Pd-Idv-Sel, e da lui sostenuta.
Al solito su di giri, ha rilasciato un’infuriata intervista in cui insinua - insinuare è il suo mestiere - che Ferrandelli, (complice Raffaele Lombardo, il governatore), abbia indotto un plotone di mafiosi a votarlo dietro pagamento. Testualmente: «Ci sono state cose strane nei quartieri Zisa, Piazza Indipendenza, Borgonuovo». Zone, pare, ad alta densità mafiosa.
Sentire questo e tornare a vent’anni fa, è stato tutt’uno. Orlando non si smentisce. L’accusa agli avversari di raccogliere voti nei quartieri mafiosi per insinuare che siano mafiosi pure loro, è stata la sua tecnica per decenni. Subì il trattamento anche Claudio Martelli, un milanese che per sfizio nell’87 si candidò per la Camera a Palermo. Martelli se la legò al dito e restituì la pariglia: quando Orlando nel ’93 fu eletto sindaco per la seconda volta denunciò urbi et orbi che aveva fatto il pieno di voti nei quartieri delle coppole: Kalsa, Zen, Ciaculli. Dovunque passi, Orlando avvelena le acque e abbassa sottozero i rapporti umani e politici.
Comunque, per concludere la storia della sua ira per le primarie, ha sibilato: «Non possiamo lasciare il futuro di Palermo a Raffaele Lombardo, a un inquisito per voto di scambio con i mafiosi», lasciando intendere che potrebbe candidarsi lui, esempio di virtù, alla guida della città. Il Signore abbia pietà del capoluogo siciliano.
Leoluca è legato a diverse stagioni palermitane. La più nota, è quando, lasciata la Dc, si riciclò in antimafioso intransigente, fondò la Rete e inaugurò la cosiddetta «primavera di Palermo». Un inferno: tutti sospettavano di tutti, fu un continuo di denunce, di trabocchetti e il trionfo del professionismo dell’antimafia. A ispirare Leoluca, il gesuita Padre Pintacuda, un Che Guevara in tonaca, suo insegnate al liceo. Il sodalizio durò un paio di lustri all’insegna del motto pintacudiano, «il sospetto è l’anticamera della verità» e finì a pesci in faccia. Anni dopo, in un’intervista il gesuita disse di Orlando e della Rete: «Pensavo di avere formato degli statisti, mi sono ritrovato con dei nani».
Finché è stato in auge - prima di sciogliere la Rete, cadere nel dimenticatoio, passare con Rutelli, farsi cacciare e approdare da Di Pietro (2006) - Leoluca ha fatto tutti guai possibili. Ruppe perfino l’amicizia con Giovanni Falcone, seccato perché aveva arrestato Ciancimino che faceva affari con la sua prima giunta (1985-1990). Fu lo stesso Falcone a farne cenno al Csm che lo convocò dopo le inaudite accuse di Orlando contro di lui. Le cose andarono così. Nel maggio del 1990, a Samarcanda da Santoro, comparve Leoluca col ciuffetto più indisponente del solito e disse che il magistrato teneva «nel cassetto» le prove contro Andreotti e il suo factotum nell’isola, Salvo Lima. Additando così Falcone al pubblico ludibrio. Era la vendetta di Orlando perché il giudice, ascoltato un pentito che accusava Andreotti di mafiosità (insufflato dai professionisti dell’antimafia), anziché dargli retta lo aveva incriminato per calunnia. Inoltre, gli orlandiani andavano dicendo che l’attentato subito da Falcone nella villetta estiva dell’Addaura se l’era fatto da sé per farsi pubblicità.
Il Csm volle vederci chiaro e convocò Falcone. Nell’audizione, il castello orlandiano crollò e Giovanni disse di Leoluca: «Fa politica attraverso il sistema giudiziario. Sarà costretto a spararle sempre più grosse. Per ottenere ciò che vogliono, lui e i suoi amici sono disposti a passare sui cadaveri dei loro genitori. Questo è cinismo politico. Mi fa paura». Falcone aggiunse: «Mi stanno delegittimando. Cosa Nostra fa così: prima insozza la vittima, poi la fa fuori». Sei mesi dopo, infatti, fu ammazzato. Orlando si presentò al funerale affranto. La sorella di Falcone, Maria, lo affrontò: «Hai infangato il nome, la dignità l’onorabilità di un giudice integerrimo». «È una cosa che mi fa molto male», piagnucolò l’altro.
Questo non gli impedì di ricaderci nel ’95, sempre da Santoro, a Tempo reale, accusando in diretta il maresciallo, Antonino Lombardo, di essere colluso con la mafia. Era la solita falsità. Due giorni dopo, l’informatore del maresciallo fu trovato incaprettato. Lombardo lasciò passare una settimana poi, impaurito e solo, si uccise. Per le sue calunnie, Orlando non ha mai pagato, salvo una condanna definitiva per diffamazione di alcuni consiglieri comunali di Sciacca accusati, al solito, di mafia, ma del tutto innocenti. Gli è costato qualche decina di migliaia di euro. Niente rispetto ai veleni che ha diffuso nella vita.
E dire che era nato dc, figlio di Orlando Cascio («tra quelli che più organicamente e stabilmente hanno
espresso il potere mafioso..», pag. 578 della Relazione Antimafia di minoranza), e che, diventato sindaco dc la prima volta, andò subito in pellegrinaggio da Salvo Lima per ringraziarlo. Ah, avere lo spazio per dirle tutte...- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.