Silvio Berlusconi si è autosospeso dall'Albo dei Cavalieri del lavoro ma nel linguaggio comune continuerà ad essere chiamato «il Cavaliere». Non potrà candidarsi alle elezioni europee ma rimarrà comunque leader incontrastato del partito che ha fondato e che rappresenta un quarto degli elettori italiani. Dopo il 10 aprile finirà con ogni probabilità ai servizi sociali per otto mesi di seguito ma senza il suo sostegno determinante il presidente del Consiglio Matteo Renzi non riuscirà a realizzare neppure una delle tante riforme promesse con tanta enfasi.
Chi considera politicamente morto Berlusconi, quindi, compie un errore marchiano. Perché la fine di un ciclo politico non viene mai determinata da una qualsiasi azione giudiziaria ma solo e soltanto dall'esaurirsi della famosa «spinta propulsiva» di cui parlava il segretario del Pci Enrico Berlinguer. La domanda da porsi, allora, non è se la sentenza della Cassazione e le prossime decisioni del Tribunale di Milano possano segnare la fine del ciclo berlusconiano ma solo se la spinta propulsiva del leader di Forza Italia si sia esaurita o meno. Questo interrogativo ha già risposte chiare. Se dopo vent'anni di persecuzione politica, mediatica e giudiziaria il Cavaliere continua ad essere il leader di un partito che supera il venti per cento e che è determinante per la sorte del governo, delle riforme e della legislatura, appare decisamente bizzarro sostenere che la sua spinta propulsiva si sia esaurita.
Ma c'è di più. È proprio la presa d'atto che al ventesimo anno la persecuzione giudiziaria ha ottenuto il risultato di espellere dalle Assemblee parlamentari un personaggio così decisivo per la politica del paese, a fornire un più efficace carburante all'avvio di un nuovo ciclo di spinta propulsiva di Berlusconi. Il carburante è quello prodotto dalla reazione popolare alla malagiustizia. Il caso del Cavaliere non è più personale o relativo alle aziende Mediaset o alla sola Forza Italia. È la spia di un fenomeno di degenerazione che ormai minaccia l'intera società. Ciò che è capitato a Berlusconi ha toccato gran parte degli italiani e può colpire qualsiasi altro cittadino. Con la differenza che il Cavaliere ha avuto i mezzi ed il carattere per resistere mentre una persona normale, anche se avesse un carattere di ferro, non ha alcuna possibilità di uscire indenne da una qualsiasi disavventura di natura giudiziaria. Si tratta di usare il caso Berlusconi per lanciare una grande battaglia contro gli effetti devastati della malagiustizia.
Che non riguardano solo la giustizia penale ma anche quella civile, amministrativa, fiscale e dipendono dal rapporto perverso che si è instaurato tra lo stato burocratico ed i cittadini trasformati in sudditi. Combattere questa battaglia non comporta solo iniziative in favore della riforma della giustizia e dello stato burocratico ma anche (e soprattutto) una grande rivoluzione culturale. Il ciclo del giustizialismo, iniziato nella prima metà degli anni'90 e che ha portato ad una sorta di pandemia giudiziaria che si è diffusa in ogni angolo della società, si è concluso con il caso Berlusconi. Ed ora proprio questo caso può aprire il ciclo contrario del ritorno alle garanzie per tutti. Non va dimenticato che a subire le conseguenze della malagiustizia sono gli italiani di ogni collocazione politica, culturale, religiosa. Non sono un partito.
Ma potrebbero esserlo. Usando lo stesso mezzo utilizzato nella Francia di fine ottocento da Emile Zola contro la giustizia politicizzata del caso Dreyfus. Il «J'accuse!» per il ritorno alla giustizia giusta ed allo stato di diritto!- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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