La sconfitta dei pm che cercavano l'orco per forza

Assolte anche in Appello le maestre processate per abusi sui bambini, ma l'ostinazione dell'accusa ha rovinato la vita a decine di persone

La sconfitta dei pm che cercavano l'orco per forza

Che il fatto non sussistesse - come ha sentenziato il Tribunale di primo grado e confermato la Corte d'appello - saltava agli occhi alla sola lettura delle cronache giornalistiche. E che i capi d'accusa si sbriciolassero fino a ridursi in polvere ad ogni tornata del dibattimento in aula ne devono aver avuto cognizione anche i magistrati che presero in carico le sedicenti orge pedofile di Rignano. Eppure, dopo la sentenza assolutoria del maggio 2012 ricorsero in appello, coinvolgendo decine di famiglie e di minori oltre che, ovviamente, gli imputati. Per non dire del costo per il contribuente, dettaglio che nelle aule di Tribunale è l'ultima cosa alla quale si pensa (meno che mai alle spese che devono sostenere le parti. Due degli imputati hanno perfino dovuto rinunciare alle copie degli atti, ovvero alla materia prima della difesa. Gliele mettevano a disposizione per la cifra di 13mila euri).
Violenza sessuale di gruppo, maltrattamenti, corruzione di minore, sequestro di persona, sottrazione di persona incapace, turpiloquio (anche turpiloquio! E Grillo? All'ergastolo?), atti osceni in luogo pubblico... questa la gragnuola d'accuse riversate su tre maestre d'asilo della scuola Rovere di Rignano Flaminio, una bidella e un autore televisivo imputati di cose ignobili ai danni di ventuno bambini. E tutti, in associazione per delinquere, dentro, in carcere. Sulla base di relazioni di consulenti, assistenti sociali e psicologi che interpretavano o meglio decrittavano reticenze, disegni, affabulazioni, gestualità e mimica delle piccole e presunte vittime nel presupposto che gli adulti mentissero comunque e che comunque i bimbi fossero senz'altro sinceri, estranei alla mimesi, alle soggezioni, alla libera, fantasiosa e infantile interpretazione della realtà.
Siccome la ricerca della verità è compito del magistrato, che se ne fa garante, si possono nutrire perplessità sul metodo e sulle sue conseguenze - cinque adulti, brave persone, subito ridotti a «mostri» - ma non sarebbe appropriato spingersi oltre. Condotta che torna però difficile da mantenere quando l'accusa, eppur di fronte a una sentenza assolutoria piena e di esemplare eloquenza - «il fatto non sussiste» -, ricorre in appello. Delegittimando, indirettamente accusandola di incompetenza, di imperizia, la Corte di Tivoli. E trascinando per altri due anni un processo - e la gogna dei «mostri» e il disagio delle famiglie e delle stesse presunte vittime - che ne era durato già cinque.

Per ottenere, com'era prevedibile, com'era scritto nelle carte e nelle cose, il medesimo risultato: «Il fatto non sussiste». La tenacia è virtù encomiabile, ma non sempre apprezzabile. E la riforma che preclude l'appello al pubblico ministero, fermo restando il diritto al ricorso dell'imputato, sempre più impellente.

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