Quando Alfano dà l'annuncio, c'è una sola parola che suona molto strana, tremendamente stonata: «È una persona della provincia di Bergamo». Persona? Purtroppo questo non è il momento del garantismo e del rispetto, della pietà e della compassione, di tutte le nostre migliori virtù civili. Lo sappiamo bene, l'abbiamo letto sui libri di filosofia e sui codici della legge, anche la belva più belva ha una sua dignità che va tutelata, eccetera eccetera. Forse verrà anche quel tempo, prima o poi. Non ora, non adesso. Adesso quell'uomo è soltanto lo spregevole boia di Yara, della nostra piccola, cara, indimenticata Yara. La nostra figlia, la nostra sorella, la nostra nipote: l'innocente che da tre anni e mezzo abbiamo tutti in qualche modo reso familiare, dentro le mute e insondabili relazioni del cuore.
È umanamente impossibile in questo momento fermare il flusso tumultuoso degli istinti. Bisogna essere in odore di santità, per certi freni. Ma i santi sono eccezioni. Il massimo che possiamo concedere alla nostra umanità è la faticosa repressione dell'istinto peggiore, la tentazione assoluta della pena di morte. Di fronte a certe atrocità appare prima e unica espiazione possibile. Ma tutto sommato è anche un regalo troppo facile che il boia di Yara non si merita. Rinchiuderlo e buttare via la chiave, questa la vera richiesta del nostro animo inferocito. E per favore aspettiamo almeno un po' a parlare di riabilitazione, di rieducazione, di seconda possibilità. Non ora, non adesso. Non è questo il momento.
Se la certezza è certa oltre ogni ragionevole dubbio, adesso questo italianissimo bergamasco, giovane papà di tre bambini capace di ammazzare una bambina come le sue, deve solo pagare. Tutto e subito. Senza sconti. Certo deve rendere conto del delitto, di quella sera folle e feroce, quando rapì Yara all'uscita dalla palestra e ne fece scempio in giro per squallidi piazzali. Ma sarebbe ingenuo e ingiusto, soprattutto ingiusto, considerarlo colpevole solo di omicidio. Quest'uomo, nel tempo, si è macchiato di una colpa se possibile ancora più imperdonabile: il silenzio. Un silenzio disumano. Prima i tre mesi indescrivibili delle ricerche per ritrovare almeno il cadavere di Yara: moltitudini di persone impegnate per giorni e giorni nella zona, e lui a passeggio per le stesse strade, per gli stessi borghi, tra le stesse persone, come se niente fosse. Impassibile, senza un cedimento, senza dire una parola. Mimetizzato come un rettile.
E poi dopo, in questi tre anni di monumentali inchieste, di veglie religiose, di appelli familiari (mamma Maura, quante notti insonni, quanto dolore e quante lacrime). Diciottomila prelievi di Dna, gli inquirenti presi a maleparole, tutto quel pessimismo e quella rassegnazione. E il rettile sempre in zona, sempre lì, spettatore dell'inestricabile rompicapo, magari pronto a dire la sua davanti al Campari, tra gli amici, giù al bar del paese. Peggio: in casa sua, con i bambini terrorizzati, prima di metterle a letto.
Niente di niente, nessun tremore e nessun cedimento. La solita vita, tanto amore per i cani (un animo nobile) e l'ormai proverbiale, scontata, frenetica creatività su Facebook, tra barzellette spinte e messaggi profondi. Uno su tutti: foto di una bella mela intera accanto alla foto della stessa mela tagliata, marcia dentro. Il suo commento assorto: «C'è gente che fuori è così, ma dentro è così». Sostanzialmente, una breve nota autobiografica.
La domanda che nessuno può evitare di porsi è tremenda: come ha potuto, come ha fatto? Come può un essere umano sostenere il silenzio di questi lunghi anni, come può reggere un simile peso? Come è possibile che una persona, ad un certo punto, non crolli sotto il bisogno - un bisogno ancestrale - della pace? Ma forse la domanda è malposta alle origini: per quello che ha fatto, per come l'ha portato avanti, questa non è una persona. È un'altra cosa.
Lo chiamavano Ignoto 1. Con un lavoro magistrale (dopo un inizio parecchio pasticciato) la disastrata giustizia italiana è riuscita a disegnare un profilo genetico. Fino a poche ore fa, sapevamo com'era l'assassino. Non chi era. Finalmente l'incubo si dissolve e il diabolico incantesimo è sciolto. C'è un nome, una faccia, una storia. Soprattutto, una storia. Un giovane uomo nato in montagna da una relazione clandestina, poi un marito, un padre, uno spietato assassino, infine un rettile perfettamente mimetizzato dentro l'habitat sconvolto del suo territorio. La provincia italiana arricchisce con un nuovo disgraziato il suo sterminato campionario di squallidi sanguinari.
Dice il
parroco di Brembate, don Corinno Scotti: «Spero che per quest'uomo ci sia giustizia, non vendetta». Così parlano i bravi preti. Don Corinno, dica però sinceramente: davvero può esistere giustizia umana per simili storie?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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