Se ci fosse ancora bisogno di prove sulla fallibilità del sistema giudiziario in tema di immigrazione e accoglienza potrebbe venire in aiuto rammentare il caso della giudice Luciana Breggia. Oggi magistrato in pensione, ha aderito all'appello, pubblicato sul sito dell'Anm, contro la separazione delle carriere e la riforma della giustizia voluta dal governo Meloni, ma è stata dal 2013 al 2020 presidente di sezione del tribunale di Firenze. In particolare, dall'agosto 2017 ha presieduto la sezione specializzata per l'immigrazione e la protezione internazionale. Solo nel secondo semestre di quell'anno, la percentuale di accoglimento delle domande era stata dell'85%.
D'altronde, nei convegni a cui partecipava, la Breggia non ha mai nascosto di decidere basandosi non soltanto sulle leggi. «Un giudice ha una testa e un cuore, non è disincarnato. Avere un pensiero ed esprimerlo lo rende più trasparente», ha dichiarato in occasione di un convegno del 2019 promosso dalla corrente della magistratura Area Democratica e da Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione). Nello stesso anno, la Breggia ha rigettato il ricorso del Viminale, all'epoca guidato da Salvini, contro l'iscrizione all'anagrafe di un richiedente asilo. Sempre nello stesso anno, a Viterbo, un pachistano è stato arrestato per violenza sessuale ai danni di due ragazzine di nemmeno 14 anni. La commissione territoriale aveva respinto la sua richiesta di asilo ma l'immigrato aveva fatto ricorso sostenendo di essere omosessuale e ottenendo così la protezione speciale dal tribunale di Firenze. Un'altra prova della stortura del sistema di accoglienza dove senza alcune prove tangibili e verificabili a volte viene concesso asilo a chi millanta o racconta falsità.
La Breggia nel corso della sua carriera ha partecipato a dibattiti con le Ong, con Arci e Anpi, ha presentato un libro contro i respingimenti e i porti chiusi e ha sostenuto che «nessuno è clandestino sulla terra». Ma il magistrato è stato anche coordinatrice e anima della Onlus «Rete per l'ospitalità nel mondo», che aveva come obiettivo, tra le altre cose, quello di trovare alloggi per le minoranze. Non per nulla, la casa alla famiglia rom resa famosa dall'allora governatore della Toscana Enrico Rossi con una celebre foto finita su tutti i giornali gliela trovò proprio l'associazione della Breggia. Che nel dicembre 2014 dichiarava: «Abbiamo incontrato questa famiglia rom alle 6 del mattino, era stata appena sgomberata da un campo all'Olmatex, fabbrica abbandonata di Sesto Fiorentino, era molto freddo (...) Gli abbiamo trovato una casa in affitto, pagando di tasca nostra, è una casa di proprietà della società Montedomini alla quale noi paghiamo un affitto pieno, la Rete da quando si è costituita, nel dicembre 2010, vive con l'autofinanziamento dei volontari e con finanziamenti privati, non abbiamo fondi pubblici. Ci occupiamo non solo dei rom, ma anche di altre minoranze e persone in difficoltà». Tutto lecito, per carità, così come è lecito nutrire il dubbio sull'imparzialità del giudice nei confronti delle minoranze che si sarà trovato a giudicare.
D'altronde, è la stessa Cassazione a definire il principio dell'imparzialità nelle sentenza del 14 maggio 1998 n. 8906 in cui le Sezioni Unite hanno precisato che «l'esercizio della funzione giurisdizionale impone al giudice il dovere non soltanto di essere imparziale, ma anche di apparire tale; gli impone non soltanto di essere esente da ogni parzialità, ma anche di essere al di sopra di ogni sospetto di parzialità.
Mentre l'essere imparziale si declina in relazione al concreto processo, l'apparire imparziale costituisce, invece, un valore immanente alla posizione istituzionale del magistrato, indispensabile per legittimare, presso la pubblica opinione, l'esercizio della giurisdizione come funzione sovrana: l'essere magistrato implica una immagine pubblica di imparzialità». Parole vane al vento.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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